AGI – Il rapporto ormai è inversamente proporzionale: si consuma più pesce ma diminuisce il numero dei pescatori disposti a pescarlo. Tant’è che dal 1988 a oggi le flotte dei porti italiani si sono dimezzate, così gli equipaggi e anche il quantitativo del pesce pescato.
Al tempo stesso, però, è raddoppiata la dipendenza del pesce importato dall’estero. La pesca è certamente un’attività millenaria, tuttavia oggi per mancanza di tutele, di un equilibrio tra ambiente e lavoro, per mancanza di ricambio generazionale, essa rischia di vedere presto la propria fine, a causa di un considerevole depauperamento di risorse ittiche dentro i mari ma anche per un’assenza generalizzata, vera e propria, di lavoratori del settore.
Di fatto in Italia la pesca continua tutt’oggi a dare lavoro a circa 35mila persone con una flotta peschereccia di 11.926 unità concentrate essenzialmente in Sicilia e in Puglia, e una produzione attribuibile alla cattura che se nel 2016 è arrivata a 185.300 tonnellate e oggi è invece scesa a 130.085.
Basti pensare, ad esempio, che soli vent’anni fa Manfredonia aveva una flotta di oltre 500 pescherecci, adesso le barche presenti non arrivano neppure a 300, tant’è che molti pescatori sono dovuti emigrare in altri porti dell’Adriatico, più a nord, o più semplicemente hanno anche smesso di pescare per tutte le problematiche che la pesca oggi comporta.
Il risultato, di fatto, è che quasi la metà dei manfredoniani in età adulta è disoccupata. Anche se secondo dati statistici recenti, Manfredonia è uno tra i principali porti italiani per numero di imbarcazioni dedite alla pesca; per quanto, se si considera la stazza lorda, il primato spetta al porto di Mazara del Vallo che schiera circa 220 imbarcazioni con 16.725 tonnellate di stazza lorda complessiva.
Però, dal 1991 a oggi sono state demolite in Italia quasi 6.000 imbarcazioni, soprattutto quelle per la pesca a strascico che è la più rappresentativa dei nostri mari. I quantitativi del pesce pescato, inoltre, sono poi drasticamente calati negli ultimi trent’anni a causa di un settore marinaro sempre più in crisi per l’aumento del prezzo del gasolio e dell’abbassamento di quello del prodotto, ma a causa anche di normative restrittive, zone di pesca interdette, multe salate e molti altri cavilli burocratici.
Si osserva anche che i governi italiani degli ultimi decenni oltre a essersi apparentemente disinteressati dei pescatori e del loro indotto, non sono riusciti a risolvere la problematica sulle acque territoriali, che si estenderebbero di norma per 12 miglia marine da ogni costa, e sulle “acque contese” con i paesi marittimi confinanti che al contrario del nostro paese spesso dispongono in mare di vere e proprie ZEE , ovvero “zone economiche esclusive”.
Pesca, una tradizione ad alto rischio di estinzione
In definitiva, a guadagnarci nel Mediterraneo sono stati soprattutto gli stati che si affacciano sui nostri stessi mari, come la Francia, la Croazia, ma anche i paesi del Nordafrica.
Sulle nostre tavole, del resto, ormai il 60% del pescato arriva da mari non italiani, spesso extraeuropei, in particolari dall’Oceano Indiano e Pacifico. I paesi scandinavi, per esempio, anche a causa della loro posizione geografica più isolata in mezzo ad acque internazionali, dispongono di imbarcazioni industriali strutturalmente più grandi e adatte a pescare in profondità.
Mentre la Cina immette annualmente sul mercato circa 81 milioni di tonnellate di pesce, di cui tre quarti viene pescato “in cattività”. Prevale invece l’acquacoltura che negli ultimi dieci anni ha ricevuto in contributi e sostegni dalla Ue oltre 320 milioni di euro, pari al 40% della spesa europea per l’ittica.
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