AGI – C’è un’arte che ha avuto a Roma, tra la metà del Settecento e il secolo successivo, il suo exploit e quasi la sua unicità. Un’arte però ancora poco conosciuta, ancorché indagata da alcuni studi e portata alla ribalta con una mostra, nel 2016, nel capitolino Museo Napoleonico. E’ la disciplina del mosaico minuto, o “mosaico in piccolo”. Arte applicata su mobili, camini, oggetti di oreficeria; ma arte tout court, racchiusa in preziose cornici. Spesso riproduce in piccolo, appunto, dipinti celeberrimi. Con un lavoro certosino perché il soggetto si replica grazie all’applicazione di minuscole tessere in smalti filati, che rendono possibile, appunto nelle loro millimetriche dimensioni, la vibrazione del colore, al pari di un pennello. Al punto che i “mosaici in piccolo” vengono considerati “pittura per l’eternità” perché “non perdono il colore”.
In questa arte eccezionale, inizialmente sviluppatasi nei laboratori del Vaticano, eccelse una donna. Fatto a sua volta eccezionale, poiché artigliava la supremazia totale delle mani maschili. Invece Settimia Maffei Marini, vissuta tra il 1778 e il 1822, riuscì addirittura a essere nominata socia d’onore dell’Accademica di San Luca. Ora la sua esistenza inimitabile e dimenticata è raccontata in un delizioso libro, “Settimia Maffei Marini, mosaicista romana” firmato da Maria Grazia Branchetti, storica dell’arte, docente ed esperta del mosaico romano, che analizza da decenni, con mostre (è stata tra le curatrici di quella al Museo Napoleonico), monografie, saggi.
Sulla copertina rosa antico del volume, proprio sopra al logo dell’Editore – che è Gangemi – si specifica la natura dell’opera: romanzo storico. E davvero le vicenda di Settimia è indagata con la fluidità del racconto, l’andamento della narrazione. L’autrice ricrea atmosfere e milieu della città del Papa Re, l’ombelico del mondo per presenza di artisti, intellettuali, giuristi, aristocratici, storici, scienziati, archeologi, quella caput mundi diventata la meta del Grand Tour. Già l’incipit dà consistenza al personaggio, svelandolo come il raggio di sole che illumina il cavalletto dove l’artista sta lavorando, nello studio casalingo assai attrezzato, a Palazzo Pio, in piazza del Biscione, a ridosso di Campo de’Fiori. Eccola prelevare con la ”molletta” le tessere minuscole di smalto e inserirle, delicata e sicura, sul letto di stucco preparato tra l’altro con olio di lino. Lo sguardo corre spesso sul cartone che reca il disegno da riprodurre. Arriva un inserviente, le consegna una lettera fatale: proviene dall’Accademia di San Luca, presieduta da Antonio Canova, e le annuncia l’onorificenza che, tra l’altro, la pone sullo stesso piano del marito, il cavaliere Luigi Marini, alto esponente della burocrazia pontificia nonché studioso di architettura e tecnica militare destinatario cinque anni prima della medesima nomina.
E’ il 1817, da tre anni i francesi di Napoleone hanno lasciato Roma , dove hanno dominato dal 1809 (un’altra invasione da Oltralpe era avvenuta nel 1798-99, il periodo della Repubblica Romana). I Marini hanno saputo galleggiare tra le due contrapposte epoche storiche, fedeli prima al Papa, poi al prefetto francese de Tournon – Luigi era stato consigliere di Prefettura e a Napoleone aveva dedicato il suo Trattato di Architettura Militare – poi di nuovo rientrati nelle grazie di Pio VII: il cavalier Marini che aveva tutelato con impegno e rigore l’integrità della Biblioteca Casanatense e Settimia, apprezzata perfino a Parigi e lodata per la riproduzione dei templi di Paestum in micromosaico su una decorazione per camino costatole due anni di lavoro, sono personaggi capaci di adeguarsi alle circostanze, lei in grado di compiere scelte artistiche coraggiose, di anticipare tendenze. Le viene anche dedicato un sonetto, in una temperie di grande considerazione per le arti, favorito dalla dominazione francese ma anche dalla missione di Antonio Canova, andato a riprendersi a Parigi i capolavori portati via da Bonaparte, forte del Trattato di Tolentino.
Branchetti ricostruisce con rigore e levità episodi sulla scia di documenti finora inediti.
Può ad esempio rintracciare molte produzioni della mosaicista ma anche descrivere la biancheria che donna Settimia reca in dote quando si sposa (nozze celebrate nella sua parrocchia, San Luigi dei Francesi) e l’elenco non è arido ma squarcio di costumi, ricco di dettagli come nella descrizione dell’orologio donato allo sposo, un oggetto “modaiolo” creato dal famoso orologiaio ginevrino Isacco Soret. Ricorda le coccarde tricolori che le giovani si appuntano al petto durante il periodo repubblicano, segno di adesione alle idee rivoluzionarie, apprezzate soprattutto per la parità che configurano tra uomo e donna. Evoca come in una quinta teatrale la vita che pullula intorno alla protagonista: le botteghe dei mosaicisti tra le piazze di Spagna e del Popolo dove l’artista compra senza risparmiare gli smalti (ben 829 gradazioni di colore per il desco raffigurante Zeus), quelle dell’arrotino, del maccaronaro sotto la casa di Palazzo Pio, che affaccia anche su Campo de’ Fiori e sente il tramestio del mercato del grano e dei cavalli, le preghiere sussurrate davanti all’immagine della Madonna del Latte incastonata nel Passetto del Biscione…
La città intanto si ubriaca di eventi di opposto segno, nell’arco di otto anni memorabili: i 101 colpi di cannone di Forte Sant’Angelo a salutare la nascita del “Re di Roma”, il figlio di Napoleone; la Girandola di Castel Sant’Angelo, la sfilata da Ponte Milvio e il ponte di barche sul Tevere per festeggiare il ritorno di Pio VII, in un tripudio di apparati effimeri ideati dal Canova.
Poi c’è la Settimia madre premurosa e tenera. E qui il saggio-romanzo si colora di tinte scure, rintraccia drammatici avvenimenti che ne giustificano il volto velato di melanconia, in quel suo pensiero ricorrente, la caducità della vita. La primogenita, Marina, è morta poco dopo il parto. Darà alla luce un’altra bambina, alla quale trasferisce il nome di Marina. Un maschietto, Francesco, perisce a un anno d’età. A ridosso del lutto la Maffei dà alla luce Pietro. Ma mentre lavora alla sua opera più impegnativa, la riproduzione in micromosaico dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, anche questo figliolo se lo porta via, in venti giorni, una malattia infiammatoria, come dice la vaga diagnosi.
E’ il settembre del 1822, resta vuoto e muto lo studio dove Settimia ha lavorato alacremente con due aiutanti, l’opera più ambiziosa resta incompleta, ancorché all’ultimo stadio. Passa poco, ad ottobre Settimia diventa preda di una malattia di carattere nervoso, ipotizzano i medici. In venti giorni si spezza la sua esistenza. Come per Pietruccio, esequie all’Ara Coeli, illuminata anche dai ceri accesi davanti Bambinello ligneo coperto di fasce e di gemme, oggetto di devozione che dal 1994 i romani non possono più venerare a causa di un furto più che sacrilego. Luigi Marini ottiene in cessione la settima cappella a sinistra di Santa Maria in Ara Coeli e qui farà erigere dallo scultore Laboreur il monumento funebre di Settimia e di Pietro.
Lo corona il busto della donna, trasmettendoci la sua immagine, replicata anche in un ritratto inciso dal Bystrom (una delle due copie è alla Calcografia) con la dedica “A Settimia Marini, cultrice di Belle ArtI”. Lei è raffigurata di profilo, il naso sottile, la bocca piccola e aggraziata, i capelli raccolti e trattenuti da una treccia, qualche ricciolo le cade sul collo. Mentendo, Giacomo Leopardi in una lettera alla sorella Paolina, definisce la moglie del Marini, “zoppa e brutta”. Uno sgarbo che si spiega con la speranza del poeta che il ricco vedovo – conosciuto e frequentato durante il soggiorno romano a cavallo tra il 1822 e il 1823 – possa sposare appunto Paolina. Marini invece nel luglio del 1823 impalma una vedova blasonata, Barbara Clarelli, già madre di due ragazze. Gli darà il titolo di marchese e un erede maschio, di nuovo chiamato Pietro.
Finisce così la parabola della mosaicista romana che vinse pregiudizi e diffidenze in vita e che ora si scrolla di dosso l’oblio. Opere sue e di artisti coevi sono riprodotte in carta patinata e a colori nel libro della Branchetti . E di lei si parlerà a marzo al Museo di Roma, in una conferenza inserita nell’ambito della mostra “Roma pittrice”, altra occasione di disvelamento di tante artiste che dal Seicento all’età moderna hanno prodotto quadri e incisioni capolavoro, eppure messe da parte in un mondo dominato dalle figure maschili.
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