(Afp)
Vincenzo Iaquinta
Si conclude con 125 condanne, 19 assoluzioni e 4 prescrizioni il primo grado del processo Aemilia, il più imponente alla ‘ndrangheta nel Nord Italia. Durante la lettura della sentenza qualcuno non trattiene la rabbia e urla “Vergogna! Ridicoli!” e sono Vincenzo Iaquinta, ex attaccante di Udinese e Juventus, nonché campione del mondo con la nazionale del 2006, e il padre Giuseppe.
Per lui, Vincenzo, una pena di due anni di reclusione a fronte dei sei richiesti dalla Dda, molto peggio è andata al padre condannato a 19 anni e accusato di associazione mafiosa. E l’aggravante mafiosa è proprio l’accusa che durante il processo è decaduta nei confronti dell’ex attaccante bianconero, che fuori dall’aula parlando con i giornalisti è incontenibile nel rigettare ogni accusa: “Il nome `ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Mi hanno rovinato la vita sul niente, perché sono calabrese, perché sono di Cutro. Sto soffrendo come un cane per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente, ma io ho vinto un Mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Noi non abbiamo fatto niente perché con la `ndrangheta non c’entriamo niente”.
Già, perché tutta la vicenda partirebbe da Cutro, piccolo paesino in provincia di Crotone, è il 1982 e il boss locale Antonio Dragone viene mandato nel piccolo centro di Quarto Casella, in provincia di Reggio Emilia, dove ad accoglierlo ci sono già una trentina di compaesani. Quella che subisce il paese è una vera e propria colonizzazione che riguarderà prestissimo anche l’intera regione.
Secondo la ricostruzione dei pm infatti la conquista si espande fino all’infiltrazione tra le maglie delle più alte sfere dell’economia e della politica romagnole. A Iaquinta junior, uno degli eroi della spedizione azzurra a Berlino, come scrive il Corriere della Sera, viene imputata la detenzione illegale di armi “L’ex attaccante è stato trovato in possesso di un revolver Smith & Wesson calibro 357 magnum, di una pistola Kelt-tec 7,65 Browning e di 126 proiettili. Iaquinta aveva regolarmente denunciato il possesso delle armi, dichiarando di custodirle presso la propria abitazione di Reggiolo. Secondo gli inquirenti, le aveva però poi cedute al padre Giuseppe che, fin dal 2012, era destinatario di un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia che gli proibiva di utilizzare o possedere armi perché frequentava personaggi ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta, e a loro volta poi finiti a processo”.
A maggio, interrogato in tribunale, l’attaccante si giustificò così “Sono una persona famosa, la pistola l’ho presa più che altro per il futuro, per quando avrei smesso di giocare. Mi piaceva andare al poligono quanto tornavo a casa”. Le accuse si riferiscono ad un periodo in cui Iaquinta milita nell’Udinese; il reato si materializza quando viene acquistato dalla Juventus e durante il trasferimento a Torino cede, come già detto senza avvisare le autorità come avrebbe dovuto, le armi al padre.
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