AGI – Un piccolo miracolo che a volte accade: ti imbatti nel libro che avresti voluto leggere. Anche se non lo sapevi. Puoi scoprirlo dal tema, lo stile, le atmosfere o la potenza che quel libro evoca, ma nel caso di Sognava i leoni (HarperCollins) di Matteo Nucci tutte le opzioni valgono. Non era semplice rileggere la vita e l’opera di Hemingway unendo devozione e senso critico, né fare i conti con il rifiuto che ne accompagna la figura in questi ‘tempi corretti’, utilizzando al tempo stesso letteratura e filosofia greca per spiegare il senso del suo lavoro. Nucci ha infuso passione nella sua ricostruzione/rilettura del lascito di Papa Ernest e coraggio da autore nell’intesserla di citazioni, accettando il confronto inevitabile con un gigante. Gli abbiamo chiesto a quali forze abbia attinto.
Partiamo dall’inizio: come nasce e cosa vuole rappresentare ‘Sognava i leoni’?
Hemingway è stato lo scrittore più influente del Novecento, ma il suo mito ha finito per oscurarlo. Il pescatore delle famose fotografie ha prevalso sull’uomo che si metteva di fronte alla pagina per creare frasi di perfetta semplicità. Ho voluto raccontare lo scrittore, dunque, che è poi l’uomo, al di là degli stereotipi da rivista.
Il libro analizza l’intera produzione di Hemingway, alla luce dei cambiamenti che avvenivano nella sua vita, intervallandola a una esegesi de ‘Il vecchio e il mare’: perché questa scelta?
‘Il vecchio e il mare’ è l’ultimo libro pubblicato in vita e un punto d’arrivo in cui si condensa tutta la ricerca – per così dire – filosofica di Hemingway. Lo scrisse velocemente, ma la storia l’aveva chiara da quindici anni. E in effetti gli ci era voluta una vita per raggiungere quella semplicità così profondamente complessa. Dunque ho usato il libro come la perla in cui brilla un percorso lungo, duro, e molto più sofferto di quanto si sia abituati a pensare.
Grazia sotto pressione e pietas: qual è la logica della correlazione che lei propone con Omero?
Con i poemi omerici Hemingway condivide lo stile. Certo è una conquista inconsapevole, ma accade spesso che Omero sia nelle nostre vene da sempre, senza neppure saperlo. Qui però sono anche i contenuti a brillare. L’eroismo che racconta Hemingway è lo stesso di quello omerico: uomini che sbagliano, perdono, muoiono, e che però fanno i conti con se stessi, con la propria fragilità e la propria finitezza e per questo, non per altro, sono eroi.
Hemingway ha pubblicamente condiviso in testi ibridi, come ‘Morte nel pomeriggio’ e ‘Verdi colline d’Africa’, le sue idee sulla scrittura: cosa è rimasto oggi di principi come quelli di verità, immedesimazione e omissione?
È rimasto moltissimo. Nelle scuole di scrittura si ripetono come un mantra certe leggi hemingwayane e nessuno evita di tornare sulle questioni più famose, come la “teoria dell’iceberg”. Peccato che non se ne colga mai il senso profondo e si finisca per farne delle regole vuote. Certo sta ai frequentatori delle scuole farle vivere. Cosa rarissima perché in genere chi vuole davvero scrivere non frequenta le scuole. Hemingway scriveva per curarsi, per vivere. Chi oggi ha lo stesso bisogno può trovare in quei libri indicazioni decisive.
Nel libro esplora anche il rapporto dello scrittore con la natura. Perché era così importante?
Siamo abituati a pensare Hemingway come uno di quei protestanti anglosassoni propensi a sottomettere e conquistare la natura, dimensione esterna all’essere umano e su cui l’umano deve prevalere. Non è così. E non solo perché non abbiamo a che fare con un protestante, visto che la sua fu un’educazione prevalentemente cattolica. Hemingway crebbe nella natura e il suo racconto è il racconto di un’immersione. Di nuovo è ‘Il vecchio e il mare’ a mostrarci esemplarmente questo atteggiamento. Il vecchio uccide il pesce ma gli è amico, gli parla, è unito a lui come a tutti gli esseri mortali. Il vecchio è immerso nella natura mortale e il mare in cui vive lo ama anche quando può portargli morte, lo chiama usando il femminile e non il maschile, la mar, non el mar come fanno i giovani che vogliono dominarlo, il mare. Il vecchio è immerso nel ciclo delle nascite e delle morti. È il perfetto paradigma dell’eroe hemingwayano.
Il tema del fallimento come condizione di finitezza umana, la lotta tra morte e scrittura, il gioco del torero: la disperazione di Hemingway è moderna?
Per chi come me ama gli antichi, non esiste antichità e modernità. Esiste una dimensione metastorica in cui riluce l’umanità al di fuori delle epoche e delle tradizioni. Hemingway non è moderno. È eterno.
Perché ha usato Platone per spiegare il significato dell’opera di Hemingway?
La scrittura di Hemingway è fondata sull’omissione del fatto principale e sul silenzio. Questo silenzio nella prima parte della produzione hemingwayana, fino a ‘Per chi suona la campana’, è un silenzio tecnico, ovvero un espediente che serve – stando alla teoria dell’iceberg – a dare vera forza a ciò che si omette. Ma più Hemingway si avvicina al senso ultimo, sfiorando l’assoluto e l’essere, e più capisce che certe cose non si possono e non si devono dire. Proprio come indicava Platone. È la legge che deve seguire chiunque faccia i conti con le più alte verità. Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Questo è Wittgenstein. L’esito di questa scoperta è una certa forma di misticismo.
‘Sognava i leoni’ è una biografia letteraria o un libro sulla scrittura?
È un libro in cui si rincorre un uomo che viveva per scrivere e scriveva per vivere. E che lottava con la morte e di morte principalmente scriveva. Ora, chi combatte la morte, si occupa di amore e infatti la ricerca di Hemingway gira tutta attorno all’amore assoluto. Questo libro quindi non so come vada definito, però certamente è un libro di amore. Un libro dominato dal mio amore per Hemingway e per la sua scrittura. E un libro in cui c’è tutta la mia ricerca sull’amore assoluto necessario a combattere la morte.