“L’uomo è come un algoritmo, non esiste una sua versione finale ma una che si può sempre ottimizzare e migliorare”. Francesco Marconi, 33 anni, giornalista e responsabile ricerca e sviluppo del Wall Street Journal, mi ripete più volte questo concetto durante una chiacchierata sul suo ultimo libro uscito in Italia (Diventa autore della tua vita, 30 giorni per scoprire le tue aspirazioni e cominciare a raggiungerle, Rizzoli, 2019).
Background tecnologico solidissimo, esperto di intelligenza artificiale e machine learning, soprattutto applicate al mondo dell’informazione, Marconi racconta all’Agi di come gli italiani abbiano bisogno di maggior “self-confident”, fiducia in se stessi. “Spesso sono troppo umili, questo a volte può essere un vantaggio ma anche un grosso ostacolo quando si vuol provare a cambiare lavoro o iniziare un nuovo progetto”. Un passato ad Associated Press, un presente da ricercatore al Mit di Boston e al Wsj, Marconi nel 2017 è stato riconosciuto da MediaShift come uno dei 20 principali innovatori nell’ambito dei media digitali.
Ognuno di noi, quindi, è un algoritmo umano che per crescere “ha bisogno di dati, di input, di sollecitazioni che arrivano dall’esterno”. Tutto quello che serve per avviare un meccanismo di machine learning interiore in cui la componente umana, quella non fredda e asettica dei calcolatori, è ingrediente necessario: “Questo libro non è una serie banale di formule di auto-aiuto, né promette false illusioni. È un oggetto, fisico, che può essere usato nel momento del bisogno o, ancora meglio, che puoi regalare a una persona a cui tieni particolarmente e che è in cerca della sua strada”.
Marconi è nato in Portogallo, nelle sue vene scorre sangue italiano, e vive a New York. Pochi anni fa scrisse un articolo in cui illustrava il suo “metodo E.N.G.A.G.E.” dove raccontava quanto fosse importante arrivare a stringere un patto con sé stessi per provare a cambiare la propria esistenza e perseguire i propri desideri. Tra consigli ed esercizi, pause e respiri. Quell’articolo è diventato un libro di successo che ora sbarca nelle nostre librerie con un adattamento, C.R.E.A.T.I., che non perde efficacia.
“Non è una formula di marketing” dice Marconi “Io voglio che si crei una connessione tra chi lo compra e le persone che gli stanno intorno, alla community di riferimento. Ci si può lavorare sopra, può stare sul comodino o in valigia quando si viaggia. Non è una lettura tradizionale che si consuma in due giorni. Si può leggere anche solo un capitolo alla volta, con la cadenza viene decisa dal lettore. E non c’è limite di età, si può ripetere il processo ogni volta che serve”.
Nelle pagine ci sono aneddoti personali della vita di Marconi, storie di grandi uomini e donne come Steve Jobs e Victor Hugo, i creatori di Stranger Things e Zaha Hadid ma anche, se non soprattutto, dati e ricerche che scientificamente danno solidità alla narrazione dell’autore. Per spiegare bene le peculiarità del testo si può ricorrere a una frase che è uno dei piloni portanti delle teorie di un’altra grande ricercatrice, Brené Brown: “Stories are just data with a soul”. Dati e anima. Algoritmo e umanità.
Il nostro cervello, come sostiene il neuroscienziato Rick Hanson “è come il velcro per le esperienze negative e come il teflon per quelle positive”, ovvero tende a dare più risonanza e importanza alle prime rispetto alle seconde. Chi fa il mestiere del giornalista questo lo vede anche nel tipo di notizie che fanno presa nella mente del lettore. Ma non solo.
Come giornalisti sappiamo che tutti i giorni si leggono cose con una matrice fortemente negativa, dalle guerre ai terremoti, e a volte mi sembra che siamo circondati da troppe energie di questo tipo. Ci sono studi scientifici che dimostrano come l’essere esposto a positività permette a ciascuno di noi di crescere e di migliorarci. È difficile quantificarne l’impatto ma credo sia molto importante avere accanto persone dinamiche e creative. Tornando al concetto dell’algoritmo umano: se i dati che prendi all’esterno sono negativi anche il tuo processo di “machine learning” sarà altrettanto negativo. Meglio allenare questo processo di sviluppo con positività, creatività, collaborazione.
Nel libro ci sono tre capitoli dove suggerisce di coltivare la gentilezza, di eliminare la critica sistematica, di provare a distinguersi per essere riconoscibili. Bene, la provoco. Dobbiamo abbandonare i social come Facebook? O grazie a nuovi fenomeni come Tik Tok, i giovanissimi possono tornare a ricercare una propria identità?
Penso che tutto questo abbia a che fare con il tentativo di essere “autentici”. Una piattaforma come TikTok ti lascia essere davvero autentico e creativo, altre come Facebook o Twitter sono focalizzate nel promuovere la conformità. Oggi c’è una tensione sempre più forte tra il conformarsi alla società e il provare a essere autentici. Ma succede, a volte, di trovarsi davanti a quella che viene chiamata come “fake authenticy”. Questo è quello che si dovrebbe evitare. Essere autentici e, allo stesso tempo, essere grati per quello che si ha penso sia una soluzione che possa aiutare davvero le persone a concentrarsi sulle cose importanti.
Nel libro scrive anche quanto sia importante non essere interrotti e imparare a superare il disagio del silenzio. Viene citato uno studio di Microsoft che indica come ogni dipendente venga interrotto in media quattro volte ogni ora..
Sì, per me questa è certamente un qualcosa che riguarda la sfera sociale e l’interazione umana ma ha anche qualcosa di fisico. Pensiamo ad esempio a come sono disegnati gli uffici oggi. Al Wall Street Journal è tutto “open space” e io credo che questa non sia la forma migliore dove lavorare. Vieni interrotto troppe volte. Sarebbe importante creare una struttura dove si ha il tempo per essere al 100% focalizzati nel lavoro e parallelamente altri spazi per la connessione sociale e l’interazione con gli altri individui.
E suggerisce anche di mettere sempre per iscritto le proprie idee
Serve a dare forza e concretezza ai propri obiettivi. Io procedo così: li scrivo per averli sempre davanti e ogni giorno provo a fare una o due cose che mi permettano di procedere verso il loro raggiungimento. Se lo faccio per due o tre mesi, il risultato arriva più facilmente. È come costruire una casa: cominci con i mattoni e alla fine hai un edificio.
Pieno di post-it
Esatto.
Parliamo di deepfake. In Italia abbiamo visto da poco il caso del “falso” Renzi e molti ci sono cascati.
Al Wall Street Journal abbiamo creato una squadra di media forensics dove ci sono 21 giornalisti che hanno imparato a fare la “detection” dei deepfake e altri video che promuovono l’odio. Stiamo continuando ad apprendere nuove tecniche per farlo ma quella che per me è più importante di tutte è continuare a seguire il processo tradizionale giornalistico: controllo e ricerca delle fonti. I deepfake, come ogni tecnologia, evolvono di continuo. Quando troviamo una soluzione potrebbe non bastare. Inizialmente in questi video non si vedeva sbattere gli occhi, ora è un’azione che questi volti fanno. È come un gatto che insegue il topo, non dobbiamo fermarci ma sviluppare sempre nuove tecnologie per combatterli. Il grande problema è che nel momento in cui tu hai identificato un deepfake come tale, lo stesso è già stato ampiamente visto grazie alle reti sociali che lo hanno condiviso. La sfida è anche quella di informare queste persone del fatto che hanno visto una fakenews.
Parliamo anche di fact-checking. Fondamentale, utile, molti lo apprezzano, ma non è diventato uno strumento di successo per le masse di lettori. Perché?
È molto importante per i giornalisti ma è un ingrediente base del nostro mestiere. Se non fai fact-checking non sei un giornalista o non puoi lavorare in un’agenzia. Se fai buon giornalismo, fai factchecking. È un elemento non dovrebbe distinguerti dagli altri. Penso che i giornalisti ne siano più ossessionati di quanto lo sia il pubblico. Una volta, nelle operazioni di marketing di un giornale americano, lessi “leggi il nostro giornale per proteggerti dalle fakenews”. Penso che sia una cosa molto importante per noi ma un po’ secondaria per i lettori.
Decisiva allora quella che nel libro diventa “la pepita”, ovvero quella capacità di vedere le cose in una maniera unica, trasversale, originale. Nel giornalismo e nella vita. Come la si trova?
Posso dirle come faccio io. Non posso trovare un’altra prospettiva quando sono totalmente preso dal lavoro che sto facendo. Devo diversificare le attività da fare ogni giorno. È molto difficile uscire dalla routine, dall’autopilota inserito. Ma è importante provare a farlo. Il tempo libero serve a sviluppare la creatività, a parlare con altre persone, a fare ricerca. Questo è il segreto.
“Ogni giorno è il giorno più importante della tua vita”, scrive.
A volte stiamo troppo concentrati nel voler raggiungere un grande obiettivo. Dovremmo invece avere un approccio maggiormente legato alla forma incrementale. Crescere giorno dopo giorno per creare la base del proprio futuro.
Nella prefazione leggo: “Ho lasciato l’Italia perché volevo diventare migliore. A volte penso di tornare una volta per tutte. Il motivo per cui non l’ho ancora fatto è che voglio tornarci nella migliore versione di me stesso”. Quando tornerà?
Non so ancora come risponderle. I 30 piccoli capitoli del libro sono disegnati in un maniera simile al processo in cui si sviluppa un’intelligenza artificiale. Sto ancora testando se l’algoritmo umano funziona e lo saprò solo in una versione di me più ottimizzata.
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