Il 12 dicembre 1969 Carlo Silva era seduto al tavolo di legno dellʼatrio principale, sotto al quale fu depositata la bomba. Aveva 71 anni ed era in pensione. Quel venerdì, come tutte le settimane, aveva preso il tram 13 (una linea che oggi non cʼè più a Milano) e si era recato in Piazza Fontana, poi era entrato nella Banca dellʼAgricoltura.
“Fin dal 1936 lì si svolgeva il mercato degli agricoltori. Voglio far capire che tipo di mondo era quello di mio padre, e che è stato colpito dalla bomba. Lo scambio e la compravendita avvenivano in modo estremamente semplice ed onesto: cʼerano il venditore e il compratore, che si davano la mano quando si accordavano sul prezzo; poi un mediatore sovrapponeva la sua per definire la vendita. Questo gesto aveva quasi valore notarile. Mio padre è stato per una vita agente di commercio per una grossa compagnia di lubrificanti, la MobilOil, nel settore agricolo, ecco perché andava lì per trovare vecchi clienti ed amici. Ci si beveva un caffé prima di andare in banca. Lʼagricoltura era il suo mondo, anche perché proveniva da una famiglia contadina”.
I ricordi di Paolo Silva, il figlio, hanno un ordine preciso, e bisogna seguirlo per capire a fondo le sue parole. Prima di arrivare a raccontare del giorno in cui dovette riconoscere allʼobitorio il corpo di suo padre, ridotto ad un unico pezzo di carne, ha bisogno di ripercorrere tutte le tappe di quellʼuomo. Un papà che ha perso quando era un giovane di 27 anni. “Quel giorno in Piazza Fontana cʼera un poʼ di pioggia. Allora mio padre entrò nella banca, appoggiandosi al tavolone di legno. Ai suoi piedi sarebbe stata lasciata quella valigetta… Penso che sarebbe morto comunque, ma forse non in quel modo”.
Paolo Silva, credits: Youtube
A distanza di 50 anni il rimorso non smette di bruciare: “A quei tempi avevo 27 anni, mio fratello Giorgio 28. Ero un giovane capo area per unʼazienda svizzera e andavo spesso in missione. Lʼultima volta che vidi mio padre eravamo alla stazione. Quel venerdì, alle 18, mi trovavo però in Galleria. Avvertii movimenti, sirene, ma erano gli anni delle contestazioni e degli scioperi, quindi non pensai a niente di drammatico.
Dalla Galleria di Piazza Del Duomo a Piazza Fontana ci sono 700 metri in linea dʼaria, eppure io andai a casa. Fu il benzinaio a dirmi: ‘Sa che è scoppiata un bomba, alla Banca dellʼAgricolturaʼ. Pensai subito ‘Papà”.
Che cosa successe dopo?
Presi lʼauto e andai subito in piazza Fontana, con mille difficoltà perché cʼera un grande traffico. Parcheggiai là vicino e capii subito che era una catastrofe. Tutto era recintato, mi identificai e chiesi notizie di mio padre. Sarò stato a 10 metri dallʼingresso principale, ma quella visione mi devastò: cʼera ancora un odore acre di mandorle amare. Papà non risultava né tra i morti né tra i feriti, né sul posto né sugli ospedali. Non mi arrendevo ancora allʼidea della morte: “Un uomo di settantuno anni – pensai – in stato di shock, starà vagando per la città”. Andai in questura, e trovai mio fratello Giorgio. Fummo avvicinati da un funzionario: cʼera un vittima da identificare allʼobitorio.
Il momento dellʼobitorio è quello più difficile da raccontare…
Trovammo il direttore, il professor Marrubini. Aprii quella porta e vidi una cosa che non so definire se non atroce, terribile, terrificante. I corpi di 13 vittime, uno accanto allʼaltro in condizioni penose: sangue, corpi bruciati, carne maciullata. Alzai il lenzuolo che copriva lʼultima vittima: era nostro papà Carlo. Quello che era rimasto del suo corpo erano poche decine di centimetri. Ricordo ancora che Marrubini ci disse: “Ho 57 anni, ho fatto la Seconda guerra mondiale, ma non ho mai visto una cosa del genere”. Ci abbracciò singhiozzando.
Vostra madre sapeva?
Andammo a casa e raccontammo a mamma che papà era morto per lo spostamento dʼaria. Decidemmo che non doveva venire allʼobitorio. Abbiamo fatto bene. Lei poi ci ha ringraziato, perché lo ha ricordato comʼera. Dopo, abbiamo anche preteso che non venisse ai funerali, ma che li guardasse con tutti i parenti che erano vicini a lei, alla televisione.
Arriviamo a quell 15 dicembre. I funerali, il silenzio in piazza Duomo, la reazione di Milano. Lei parla spesso di ‘rumore del silenzioʼ..
Il 15 dicembre ci siamo alzati molto presto, alle 5, per essere in obitorio e dare lʼultimo saluto a papà prima che venisse inserito nella cassa. Poi, ciascuno col suo feretro, siamo stati accompagnati a Piazza Del Duomo. Ricordo il cielo plumbeo, forse a sostegno di quello che era accaduto, la tipica nebietta milanese. Ci saranno state 300 mila persone anche nelle vie adiacenti. Tutti in diverso silenzio. Ragazzi arrampicati sui lampioni, sul monumento. Cʼera la più vasta espressione della cittadinanza, dalle massaie agli impiegati, ai dirigenti agli studenti. E cʼera in un angolo del Duomo la rappresentanza della Stalingrado italiana, ovvero gli operai di Sesto San Giovanni, ma senza un gagliardetto e senza nemmeno una bandiera. La risposta di Milano e dellʼItalia è stata con quel silenzio: “Le bombe non riusciranno a modificare lʼapparato democratico”. E io mi ricordo che sentivo i tacchi delle mie scarpe sui lastroni di porfido, e lì ho coniato lʼespressione ‘Il rumore del silenzioʼ.
Incrociaste le istituzioni?
Le istituzioni arrivarono unʼora dopo. Quando lʼallora presidente del Consiglio, Mariano Rumor, venne da me e mio fratello Giorgio e ci tese la mano per le condoglianze non ricambiammo, nel modo più assoluto. Lui disse: “Vi assicuro che entro breve i responsabili saranno aggiudicati alla giustizia”. Sono passati cinquant’anni. Cinquantʼanni. Io e mio fratello avevamo un lavoro. Ma pensate agli altri figli di vittima: ne avevano massimo 17. Per molti di loro era morto lʼunico sostegno della famiglia. Questo è un aspetto che va chiarito, precisato, raccontato. Perché è un aspetto molto importante.
Lo Stato cosa ha fatto per loro?
A distanza di trentasei anni è stata emanata una legge per i figli delle vittime. Trentasei anni. Ma rientrare nella categoria per ottenere un aiuto non era automatico: bisognava fare richiesta.
La strage di Piazza Fontana è anche una storia di morti e depistaggi, di uno Stato che non seppe fare giustizia.
La cosa che ci ha sconcertato e ci ha fatto capire che non si trattava di un gesto di un dinamitardo, ma di un attentato preorganizzato è stata la morte di Pinelli e soprattutto la responsabilità inizialmente imputata agli anarchici. Quello ha definito in noi che cʼera un disegno preciso. E da lì che cominciano i depistaggi. Il racconto del tassista Rolandi che racconta di aver preso a bordo lʼanarchico Valpreda era molto inverosimile: lo avrebbe caricato sul taxi a 250 metri dalla banca, lo avrebbe aspettato vedendolo scendere con una valigia, lo avrebbe visto entrare in banca, e tornare senza valigia. Molto inverosimile.
Quando i ragazzi delle scuole e dellʼUniversità le chiedono se crede ancora nelle istituzioni, come fa comunque a rispondere di sì?
Rispondo sì perché ci sono stati uomini delle istituzioni che hanno perso la loro vita nel cercare giustizia e verità, proprio per piazza Fontana: il giudice Emilio Alessandrini e il giudice Guido Galli. E tanti altri.
Nessuno però pagò davvero.
È una cosa che è stata lasciata a metà. Perché cʼè una verità storica, ma vi posso confermare che cʼè anche una verità giudiziaria. Non è ufficiale, forse, ma cʼè. Con la riapertura delle indagini nel 2001 grazie al giudice Guido Salvini è stata determinata ancora una volta la responsabilità di Ordine Nuovo, gruppo terroristico dellʼestrema destra, e guarda caso sono ritenuti responsabili Franco Freda e Giovanni Ventura ma non più condannabili in quanto precedentemente assolti. La cosa che mi fa più male però è che a distanza di 50 anni per questioni anagrafiche molti testimoni non sono più in vita e cʼè addirittura il tentativo di derubricare questa strage come una brutta pagina del nostro Paese.
Freda scrisse libri, aprì una casa editrice. Ebbe voce, insomma, per parlare. Che cosa gli direbbe se lo incontrasse?
Freda è un pazzo. È un nazifascista che scrive di tutto e di più, ma non è perseguibile. A chi mi ha chiesto se avrei voluto incontrarlo, ho risposto che lo avrei fatto se si fosse pentito e avesse assunto le sue responsabilità. Guardandolo negli occhi gli avrei detto: “Io ho perso mio papà Carlo con la bomba in Piazza Fontana”. Avrei voluto vedere le sue reazioni. Questo non è stato possibile perché non si è mai pentito. Anzi, farnetica ancora sulle sue dottrine. Poi, chi avrei dovuto incontrare? I servizi segreti? Nessuno si è mai fatto carico di questa responsabilità. Nessuno fu davvero condannato.
La cosa più pericolosa, dei depistaggi, è che ha lasciato, soprattutto in chi non cʼera allora, il vago ricordo di quegli anni e la convinzione che lʼunico terrorismo che assediò lʼItalia fu quello delle Brigate Rosse.
È questa la cosa più grave. Tanto che nellʼindagine che abbiamo fatto tra studenti universitari, il 40 per cento rispondeva che Piazza Fontana fu opera delle Brigate Rosse, che al tempo non cʼerano neanche. LʼItalia è una nazione giovane e senza memoria.
Come si vive quando per 50 anni non si ottiene giustizia per aver perso il proprio padre?
Cʼè un tentativo di rimozione, a volte quellʼimmagine torna, a volte tornano i sogni. Ma soprattutto da quando siamo diventati narratori di questa triste vicenda e andiamo nei licei e nelle Università, in giro per lʼItalia e per il mondo, sembra sempre il giorno dopo. Ma devo dire con grande soddisfazione che i ragazzi e gli studenti apprezzano molto la nostra testimonianza.
Avverte un pericolo di ritorno del fascismo o di recrudescenza dellʼodio?
No. Io non avverto un pericolo del ritorno del fascino, assolutamente. Ma cʼè un pericolo serio, che molti dei nostri giovani, non avendo avuto una cultura, si lascino irretire in gruppi che negano ad esempio la Shoah. Questo è molto grave. Il cancro di questo Paese degli ultimi quarantʼanni è proprio lʼindifferenza. Ai ragazzi dico: le istituzioni non sono inamovibili, starà a voi, se avrete la fortuna di vivere in un Paese democratico, votarle. Ma prima di tutto quello che dovete fare è difendere la Costituzione.
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