Le emoji non sono ancora una prova, ma in un futuro non molto lontano potrebbero diventarlo. Tra il 2004 e il 2018, le citazioni delle faccine nelle cause giudiziarie sono aumentate esponenzialmente. Eric Goldman, professore di diritto della Santa Clara University ha provato a tracciarle. Compito non semplice, perché il loro utilizzo non viene sempre registrato e non è sempre facile scovarlo nelle banche dati dei tribunali. Lo scorso anno, emoji ed emoticon sono state segnalate più di 50 volte. Nel solo 2018 si è quindi concentrato quasi un terzo delle citazioni complessive. E nel primo mese del 2019 le faccine sono spuntate in aula già tre volte.
Sommario
Tacchi a spillo e soldi
Le comunicazioni digitali portate come prova sono molto frequenti. Ma al momento, ha spiegato Goldman a TheVerge.com, spesso i giudici decidono di omettere le emoji “pensando che non siano rilevanti”. Quando invece sono “parte fondamentale della comunicazione”. Basti pensare, ad esempio, a come cambi il tono della frase se include anche la faccina ammiccante dell’occhiolino. Un caso recente ha riguardato un tribunale dell’area di San Francisco. Negli atti c’era un messaggio diretto di Instagram, indirizzato a una donna e spedito da un uomo accusato di sfruttamento della prostituzione. Il testo non diceva nulla di che: “Teamwork make the dream work”, traducibile con “l’unione fa la forza”.
La frase era però accompagnata da alcune emoji: tacchi a spillo e sacchi di denaro. Secondo l’accusa, le icone indicavano l’esistenza di un rapporto economico. Per la difesa potevano invece riferirsi a una relazione amorosa. È stato chiamato a testimoniare un esperto di sfruttamento della prostituzione, che ha confermato come tacchi e soldi siano usati spesso in quell’ambiente per ordinare di “iniziare a lavorare”. E ha sottolineato che l’icona di una corona, spedita in altri messaggi, significasse il potere del protettore. Le emoji non sono state identificate come “prove”, ma sono state comunque ammesse come supporto alla tesi dell’accusa. Tanto che l’imputato è stato condannato.
Il precedente
Nei reati legati alla prostituzione o allo spaccio, con comunicazioni gergali e codici, le emoji potrebbero essere utili, sottolinea Goldman. Così come potrebbero esserlo nel diritto contrattuale. Nel 2017, una coppia israeliana è stata condannata a un risarcimento anche sulla base delle emoji. In cerca di una casa in affitto, aveva contattato il proprietario di un appartamento dicendosi “interessata” e pronta a “discutere i dettagli” prima della firma.
Il proprietario aveva dato per fatto l’accordo e sospeso la ricerca di alternative, anche perché il messaggio era accompagnato dalle icone di ballerine, indice e medio in segno di vittoria e da una bottiglia di champagne. Peccato che la coppia, dopo aver rimandato la firma per alcuni giorni, si fosse dileguata. È stata condannata perché “le icone trasmettevano grande ottimismo” e indicavano “il desiderio di affittare l’appartamento”.
Ostacoli e necessità
Il professore della Santa Clara University, oltre a sottolineare l’importanza delle emoji, indica i problemi che ne ostacolano l’utilizzo in tribunale. Per quanto ci sia un “nome ufficiale” per ogni faccina (quello del consorzio Unicode che vara le nuove icone) e quindi un senso originario, spesso il significato si evolve: cambia con l’uso, è gergale, soggettivo e acquisisce sfumature differenti in base al contesto.
È quindi complicato arrivare a una codifica definita. C’è poi un intoppo tecnico che complica le cose: la stessa emoji viene raffigurata in modo diverso sulle diverse piattaforme, che tendono a mitigare o accentuare alcuni tratti. I problemi ci sono, ma sono in parte comuni ad altri tipi di comunicazione. Basti pensare a come cambi un’intercettazione se ascoltata o trascritta. Nonostante la strada sia lunga, Goldman prevede quindi che in futuro le sentenze che tengono conto delle emoji aumenteranno: “I giudici devono essere consapevoli della loro importanza. Dobbiamo fare in modo che le emoji ottengano la giusta considerazione”.
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