Cronaca

L’asse Trump-al Sisi sulla Libia che potrebbe mettere in difficoltà l’Onu

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Donald Trump cerca la bussola per orientarsi nell’impazzita geografia del potere politico e militare della Libia. Due giorni fa lo stop alla risoluzione dell’Onu di condanna del bombardamento su un centro di detenzione dei migranti che ha fatto almeno 53 morti e 130 feriti. La notte scorsa, la telefonata a Abdel Fattah al-Sisi, il presidente egiziano ricevuto da “grande amico” il 9 aprile scorso alla Casa Bianca, e protettore di Khalifa Haftar, il generale rinnegato accusato da più parti di aver ordinato e portato a termine, con la complicità degli Emirati arabi, la strage di Tagiura.

La Libia sembra destinata a diventare per il Mediterraneo quello che nel Golfo è lo Yemen, dove si combatte una guerra per procura tra Arabia Saudita e Emirati da un lato e l’Iran dall’altro (in Libia il ruolo di Teheran è preso da Ankara).

Se Barack Obama e Hillary Clinton sembravano aver poca dimestichezza con il quadro libico, fino a vedersi ingenuamente accerchiato il consolato di Bengasi e ammazzato l’inerme diplomatico Christopher Stevens nel settembre del 2012, Donald Trump non è da meno, con un approccio, per il momento, destinato a prolungare lo stallo e al tempo stesso delegittimare l’approccio delle Nazioni Unite, che vedono nel pur debolissimo Governo di accordo nazionale di Tripoli il perno di una transizione ancora lontanissima.

Il rifiuto americano di dare il via libera al testo britannico che la condannava, talmente cauto da non attribuire responsabilità ad alcuna delle parti, “non deve sorprendere”, spiega James Dorsey, ricercatore alla S. Rajaratnam School of International Studies di Singapore, che afferma come il fatto “ci dice che la politica degli Stati Uniti verso la Libia sta mutando”.

La risoluzione si limitava a chiedere un cessate-il-fuoco e una ripresa dei colloqui, ma, secondo Karim Bitar, analista del think-than Iris di Parigi, “la posizione americana si allinea con quelle espresse degli ultimi anni, che hanno premiato le azioni degli alleati a dispetto dei diritti umani. L’amministrazione Trump e questi ultimi hanno abbracciato i metodi duri di Haftar e la sua agenda autoritaria”.

“Gli Stati Uniti – aggiunge Dorsey, sentito dall’agenzia France Presse – non hanno ritirato formalmente il loro sostegno al Governo di accordo nazionale, ma di fatto vi sono contatti al più alto livello con Haftar”. In questo contesto potrebbe inquadrarsi il costante contatto telefonico tra il presidente americano e quello egiziano. I due hanno un nemico comune, e l’uomo forte della Cirenaica sembra il più adatto in Libia a combatterlo: i Fratelli Musulmani, tutelati dalla Turchia.

L’azione del generale, spiega Dorsey, “soddisfa due criteri agli occhi di Washington: la difesa dal terrorismo islamista, incarnato secondo Trump dall’organizzazione spazzata via in Egitto da al-Sisi e l’appoggio che gli arriva da Riad e dagli Emirati, gli alleati più importanti nel Golfo”. Gli stessi nemici di Ankara, che ha intensificato nelle ultime settimane la fornitura di armi al premier Fayez al Serraj e consentito a quest’ultimo di guadagnare terreno negli scontri militari, come nel caso della riconquista di Gharyan, a pochi chilometri da Tripoli.

Infine, Haftar è ben conosciuto dall’amministrazione americana, che vent’anni fa gli concesse la cittadinanza e gli consentì di vivere a Langley, dove ha sede il quartier generale della Cia. Per lui, sottolinea Bitar, potrebbe valere la frase che Franklin Delano Roosevelt formulò per l’allora dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: “È un figlio di puttana – disse il 32mo presidente degli Stati Uniti – ma è il nostro figlio di puttana”.

La condanna di Bruxelles per l’attacco a Tajoura

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu e l’Ue hanno condannato il raid sul centro di detenzione dei migranti a Tagiura, a est della capitale libica Tripoli, che ha causato almeno 53 morti e oltre 130 feriti. Il governo di accordo nazionale libico di Tripoli ha accusato dell’attacco il maresciallo della Cirenaica, Haftar, e gli Emirati Arabi Uniti che avrebbero fornito l’F-16 di produzione americana con cui è stato compiuto il bombardamento.

Per tutta risposta, Haftar ha lanciato la seconda fase dell’offensiva su Tripoli coinvolgendo nuovi battaglioni che già in passato si erano resi protagonisti di violente conquiste a Bengasi e a Derna. Dall’avvio dei combattimenti, il 4 aprile scorso, secondo i numeri ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità, il bilancio delle vittime tocca quota mille morti e circa 5 mila feriti. 

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu – uscito ammaccato dopo che gli Stati Uniti avevano bloccato una risoluzione di condanna ad Haftar voluta dalla Gran Bretagna – ha chiesto a tutte le parti coinvolte una “urgente de-escalation” e “l’impegno per un cessate il fuoco”. Inoltre, ha invitato tutti gli Stati – anche quelli non membri del Consigli di sicurezza – a “non intervenire nel conflitto o prendere misure che possano esacerbarlo”. 

Anche l’Unione europea è sulla stessa linea. Su proposta italiana – come evidenziato dal ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi – ha espresso una “forte condanna” per l’attacco e ha accolto “con favore la missione di accertamento dei fatti intrapresa dall’Onu”. Ha chiesto inoltre la fine immediata dei combattimenti”.

La Ue ribadisce il sostegno al processo di mediazione guidato dalle Nazioni Unite e nei confronti del rappresentante speciale Ghassan Salame’ “nei suoi sforzi per ripristinare la fiducia, ottenere una cessazione delle ostilita’, promuovere un dialogo inclusivo e creare le condizioni per la ripresa del processo politico guidato dalle Nazioni Unite”. 

Il governo di accordo nazionale di Tripoli denuncia invece che il bombardamento sul centro migranti di Tagiura è stato compiuto da un caccia F-16 degli Emirati, principale sponsor del maresciallo Haftar. Lo ha affermato il ministro dell’Interno, Fathi Bashaga: “Il rumore del jet e’ stato identificato da tecnici e piloti che lo hanno sentito. Il potere distruttivo (delle bombe) è molto grande ed e’ simile a quello delle bombe sganciate nel 2014”.

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