AGI – Era passato dalle brume della Scozia dove aveva visto la luce nel 1850 ai colori delle Isole Samoa che aveva scelto per vivere e dove si spense il 3 dicembre 1894. Scrisse anche di sé, nell’epitaffio, parlando di vita felice e di morte felice, come del marinaio che torna a casa dal suo viaggio o il cacciatore che vi rientra scendendo dalla collina. Robert Louis Stevenson in realtà non aveva avuto una vita così, se non nell’ultima parte, ma felice è stata certamente la letteratura per aver ricevuto in eredità le sue opere che appartengono al patrimonio universale. Basterebbero i soli titoli “L’isola del tesoro”, “Lo strano caso del dr Jekyll e mr Hyde”, “La freccia nera”, per riconoscere in lui uno degli autori a ragione più popolari e più significativi della stagione ottocentesca, con un posto autorevole tra i classici di tutti i tempi.
Sommario
Una salute cagionevole e la fantasia accesa dai racconti della bambinaia
La sua vita, che definisce felice, fu contrassegnata da subito da problemi di salute di probabile origine ereditaria, da parte della madre di sangue francese, ma anche da una fantasia accesa sin dalla più tenera infanzia dai racconti che ascoltava dall’istitutrice-infermiera Alison Cunningham che lui chiamava familiarmente Cunny. Fosse stato per la tradizione di famiglia, sarebbe divenuto ingegnere, ma nonostante l’iscrizione all’Università di Edimburgo non era questa la sua strada; alla fine ripiegherà sugli studi di Giurisprudenza, senza mai neppure pensare di esercitare l’avvocatura.
La sua vocazione era infatti quella di scrivere, mentre il suo obiettivo immediato per poterlo fare era di scansare quei problemi respiratori e la gracilità fisica che lo affliggevano cercando e trovando località con climi più miti di quelli della natia Scozia, come la Francia meridionale. Poco più che ventenne aveva iniziato a scrivere e a pubblicare i primi saggi, dai quali emergeva un talento naturale per la letteratura. Così com’era stato per gli studi, anche dal punto di vista sentimentale era entrato in rotta di collisione con la famiglia perché si era infatuato per l’americana Fanny Vandegrift, divorziata e con due figli, che sposerà a San Francisco a trent’anni, prima del rientro in Europa.
Il viaggio sui Mari del Sud e l’approdo sull’isola che chiamò Vailima
Tre anni dopo il matrimonio, nel 1883, dava alle stampe uno dei suoi romanzi-capolavoro, “L’isola del tesoro”, e nel 1886 il capolavoro assoluto “Lo strano caso del dr Jekyll e mr Hyde”, scritto in nemmeno una settimana. Così come aveva esaltato lo spirito d’avventura col mondo dei pirati Stevenson indagava nelle pieghe oscure dell’animo umano, anticipando i temi della psicanalisi e fornendo un inquietante affresco della lotta tra il bene e il male. Pur non essendo nelle sue corde, aveva accettato di scrivere un’opera su commissione, non potendo neppure immaginare che l’invito dell’editore avrebbe del tutto cambiato la sua vita sempre in bilico per i problemi di salute.
Assieme alla famiglia aveva intrapreso quindi un viaggio di diversi mesi nelle atmosfere esotiche dei Mari del Sud, la Polinesia francese, Tahiti e le Hawaii (all’epoca Isole Sandwich): il lavoro non procedeva spedito come avrebbe dovuto, ma la sua salute cagionevole aveva registrato un incredibile miglioramento dai climi del Pacifico, tant’è che decise di stabilirsi nel 1890 in un’isola dell’arcipelago delle Samoa che lui stesso ribattezzò Vailima.
Qui ben presto divenne un personaggio amato dalle popolazioni locali che lo chiamavano nella loro lingua Tusitala, per la sua capacità di affabulatore. Stevenson raccontava e sapeva raccontare, elevando a forma d’arte le sue esperienze di bambino perennemente malato capace di elaborare le suggestioni dell’infanzia, dei sogni e della passione adulta per la storia e per l’avventura. Stava scrivendo un racconto sulla frontiera scozzese, così diversa dai panorami esotici che lo circondavano, quando sopraggiunse la morte, per probabile emorragia cerebrale. Aveva 44 anni. Come da suo desiderio venne sepolto sul monte Vaea e sulla tomba furono riportati i suoi versi destinati a essere il suo epitaffio. Oggi la casa in cui visse felice è un museo.
La grande stagione degli sceneggiati tv della Rai: Majano e Albertazzi
“La Freccia nera” ha un posto del tutto particolare nell’immaginario collettivo italiano grazie alla riduzione televisiva che negli Anni ’60 ne fece quello straordinario regista divulgatore dei capolavori letterari nella formula dello sceneggiato che risponde al nome di Anton Giulio Majano. Sintetizzò a puntate il romanzo di Stevenson e tenne incollati davanti alla tv decine di milioni di spettatori tra dicembre 1968 e febbraio 1969 con sette attesissimi appuntamenti settimanali.
Nel bianco e nero della Rai di allora si videro tutti i colori della vena creativa di Stevenson, con una giovanissima Loretta Goggi (non aveva neppure 18 anni e fu necessario il consenso dei genitori) destinata a una straordinaria carriera, nei panni di Joan Sedley, Aldo Reggiani che interpretava Dick Shelton, uno straordinario Arnoldo Foà per il “cattivo” sir Daniel Brackley. Riz Ortolani firmò la splendida colonna sonora e la canzone della sigla era nota a tutti. Forse un caso, o forse no, ma mentre “La freccia nera” andava in onda, Giorgio Albertazzi ideava, sceneggiava e firmava la regia di una miniserie che la Rai avrebbe trasmesso subito dopo, dal 16 febbraio al 9 marzo 1969: “Jekyll”.
Lo stesso Anton Giulio Majano nel 1959 aveva trasposto per i ragazzi “L’isola del tesoro”. Il romanzo era stato fedelmente sintetizzato in cinque puntate che esaltò i piccoli italiani affascinati dalla storia di pirati che poi reinterpretavano nei giochi di cortile, con i 15 uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rhum (la canzone della sigla) e le avventure di Jim Hawkins e Long John Silver con la mappa di Capitan Flint. Era girato tutto in studio ma quello che mancava ce lo metteva la fantasia, con perfetto spirito stevensoniano.
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