“La settimana prima che stessi male, mi sono presentato in ospedale con la mascherina perché mia moglie, poi risultata positiva, aveva avuto il giorno prima un contatto con un paziente morto col virus. Mi è stato detto che in base alle disposizioni avrei dovuta toglierla perché così spaventavo i pazienti. E’ la stessa cosa che ha detto ieri sera un collega di Piacenza a ‘Report’”.
Pierluigi Piovano, 62 anni, medico del reparto di oncologia all’ospedale di Alessandria, da una ventina di giorni convive col coronavirus. “L’ossigeno ora lo tengo di scorta, vicino al letto, respiro meglio – racconta all’AGI – ma la cosa che mi da’ più fastidio, oltre alla stanchezza, è la sensazione di avere la malattia ancora addosso”. Torniamo a venti giorni fa. “I primi sintomi li ho avuti la mattina di lunedì 9 marzo, ma sono andato lo stesso lavorare per sistemare gli appuntamenti e avvisare i pazienti che non ci sarei stato. Mi sono misurato la temperatura che era 37 e mezzo e ho chiesto al medico competente di farmi il tampone, era un momento in cui era molto più difficile di adesso che li facessero. Mi è stato detto di andare a casa e stare tranquillo che era un’influenza, ma sapevo benissimo che non lo era. La febbre poi è cresciuta e ho chiesto con una mail di fare il tampone”.
Il 12 marzo il test, che viene fatto a casa di Piovano, da’ l’esito temuto: positivo. “Sono andato in pronto soccorso per fare il percorso dei positivi, esami del sangue e lastra al polmone. Ci sono stato 3 ore, gli esami non andavano male e mi hanno rimandato a casa”. La situazione precipita in poche ore, con uno svenimento davanti alle figlie e la febbre sempre più alta. “A quel punto sono stato ricoverato e la lastra era molto peggiorata, c’erano già segni di polmonite interstiziale”. Le condizioni del medico peggiorano sempre di più, gli vengono messi gli occhialini con l’ossigeno finché il 19 gli viene somministrato il farmaco antiatrite tocilizumab. ”Ne ho avuto un grande beneficio nel giro di 24 ore, è scomparsa la febbre e altri sintomi. Il 25, poiché c’era un mio collega al pronto soccorso che stava peggio, mi è stato chiesto se volevo andare a casa e ho accettato, anche se ho dovuto procurarmi la bombola a ossigeno perché avevo problemi di respirazione”.
La sua vicenda può essere inquadrata nella sottovalutazione dei rischi corsi dai medici anche da parte delle stesse strutture ospedaliere. “Non so quanti positivi ci siano nel mio ospedale, non ce lo dicono. Forse non ritengono che sia utile o per non generare panico. Tutte le sere ci mandano i dati di quanti sono i contagiati in Piemonte e quanti i morti. A un certo punto, volevo chiedergli di escludermi da questo notiziari perché quando stai male e ricevi queste cifre i stai peggio. So che hanno ‘tamponato’ le due dottoresse più a contatto con me e so che su richiesta, successivamente, è stato fatto ad altri che credo però non abbiamo ancora ricevuto gli esiti. Apparentemente sono l’unico del mio reparto che abbia dei sintomi. Noi medici, in generale, siamo stati tra i principali untori, già da gennaio bisognava preoccuparsi di proteggerci, quello che era successo in Cina lo sapevano tutti”.
Piovano guarda avanti: “Ora come ora, anche se fossi negativo, non sarei in grado di lavorare. In ogni caso quando tornerò, visto che non è peregrino il rischio di infettarsi di nuovo, userò di sicuro i dispositivi di protezione. Mia moglie è ancora positiva anche se sta bene, da quando, il 12 marzo, ha fatto il primo tampone. Questa è una malattia lenta, che ti resta addosso per molto tempo”.
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