Cronaca

La figlia in braccio, il killer alle spalle: così la mafia uccise il capitano Basile 

Sono le due di notte del 4 maggio 1980. Si è quasi addormentata quella bambina che, in braccio al padre, si accorge dell’arrivo di un uomo e non comprende cosa sta per accadere: si tratta di un killer della mafia, e spara, mancandola per un soffio. Il padre, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, si accascia a terra, mentre esplodono i fuochi d’artificio che chiudono la festa del Santissimo Crocefisso a Monreale. Giorni più tardi, Luigi Basile, fratello di Emanuele, racconterà che la bambina, 4 anni, si sentiva “in colpa” per non aver avvertito per tempo il papà. 

Il destino di Emanuele Basile, uno degli investigatori più vicini a Paolo Borsellino, era segnato dal momento in cui, originario di Taranto, giunse in Sicilia, a Monreale, e prese in mano il filo delle indagini sull’omicidio del capo della Squadra mobile palermitana Boris Giuliano, avvenuto il 21 luglio 1979.

Basile percorse la stessa pista investigativa che, attraverso accertamenti bancari, conduceva al centro degli affari dei corleonesi, mettendo nel mirino, in particolare, la cosca mafiosa di Altofonte, che opera proprio nel territorio della Compagnia Carabinieri di Monreale, e che, spiegano i carabinieri in una ricostruzione d’archivio, “per i legami con il gruppo corleonese era divenuta particolarmente temibile: le ascriverà il delitto di traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio e ben diciassette omicidi in due anni; nella stessa giurisdizione di Monreale rientrano i comuni di Altofonte, Piana degli Albanesi e Camporeale, tutti facenti parte del mandamento di S. Giuseppe Jato, rappresentato in seno alla commissione provinciale di Cosa Nostra da Antonino Salamone, generalmente sostituito da Bernardo Brusca”.

Il 6 febbraio 1980, tre mesi prima dell’omicidio, Basile riuscì ad arrestare diversi esponenti mafiosi e a ricostruire un quadro criminale che faceva capo a Totò Riina. Quel lavoro, il suo testamento professionale, lo consegnò a Paolo Borsellino.

Il killer e due complici vennero arrestati quasi subito, mentre ancora fuggivano: si tratta di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia, ma in primo grado vengono assolti tutti e tre, scarcerati ed inviati al soggiorno obbligato in Sardegna, in tre località diverse, da cui fanno perdere le proprie tracce. La Corte d’Assise d’Appello provvederà poi a condannarli all’ergastolo, rovesciando così il verdetto di primo grado; tuttavia la prima Sezione della Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, rileva un vizio di forma ed annulla il processo.

La Corte d’Appello di Palermo presieduta dal giudice Antonino Saetta li dichiara nuovamente colpevoli e li condanna all’ergastolo, ma nuovamente la Cassazione annulla per difetto di motivazione. Nel settimo processo, sul banco degli imputati, insieme agli esecutori, vi furono anche i mandanti, tutti i boss della “cupola”. Furono condannati Totò Riina, Michele Greco, i Madonia. Tra gli esecutori, né Armando Bonanno, vittima di lupara bianca, né Vincenzo Puccio, ucciso il 9 maggio 1989 a colpi di bistecchiera di ghisa nel carcere dell’Ucciardone, sconteranno la pena dell’ergastolo.

Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, morirà ucciso il Capitano Mario D’Aleo, sempre per mano di Cosa Nostra, che ha preso il posto di Basile quale Comandante della Compagnia Carabinieri di Monreale. 

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