Max Ferrero Sync / AGF
Un carcere italiano
Si chiama Stefano Monti, 59 anni, ed era imputato per omicidio in un ‘cold case’, il detenuto che questa mattina si è impiccato nel carcere della Dozza di Bologna. La prossima settimana (il 26 giugno) era prevista la sentenza della corte di assise dopo che la difesa aveva chiesto l’assoluzione di Monti in replica alla procura che ne aveva sollecitato la condanna all’ergastolo.
Monti era stato arrestato nel giugno 2018, dopo 19 anni dai fatti contestati, ovvero, dall’omicidio di Valeriano Poli, 34enne buttafuori ucciso a colpi di pistola la sera del 5 dicembre 1999 a Bologna. Il 59enne si è sempre dichiarato innocente. La sua posizione era già stata archiviata in passato e dopo la riapertura delle indagini era stato accusato di aver ucciso il buttafuori per una vendetta personale scaturita da una violenta lite tra i due risalente a nove mesi prima dell’omicidio (marzo 1999) all’esterno di una nota discoteca bolognese.
La svolta del ‘cold case’ arrivò utilizzando la tecnica chiamata “analysis of virtual evidence”. Si tratta di un’innovativa metodologia di comparazione tridimensionale basata sulla sovrapposizione di immagini estratte da un video dell’epoca (un battesimo) con quelle estrapolate da un ambiente virtuale ricostruito in 3D. Tra gli elementi decisivi per la riapertura delle indagini una macchia di sangue sullo scarponcino della vittima, con il dna di Monti, che secondo gli investigatori era riconducibile alla sera dell’omicidio. Una ipotesi contestata in aula dalla difesa dell’imputato.
Il suicidio, probabilmente, “è il risultato di un disagio legato ad un processo particolarmente aggressivo nei suoi confronti – ha detto il difensore di Monti, avvocato Roberto D’Errico interpellato dall’Agi – e alla solitudine patita in carcere”. Monti “eè entrato in carcere a quasi 60 anni – ha concluso il legale – ritenendosi innocente e probabilmente non ha sopportato i tempi lunghi del processo in un regime di detenzione”.
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