Dopo diciotto mesi nelle mani degli islamisti somali di al-Shabaab, Silvia Romano è finalmente libera. Un successo dei nostri servizi di intelligence, ha detto Conte. I servizi italiani hanno lavorato insieme a quelli turchi e a quelli somali, ma come hanno tessuto in questi lunghi mesi la trama che ha portato alla liberazione della giovane cooperante milanese? Ne abbiamo parlato con Carlo Biffani, esperto di sicurezza.
Perché c’è voluto più di un anno e mezzo per chiudere la vicenda Romano?
Un sequestro è sempre e comunque difficilissimo da gestire e si deve essere in primo luogo riconoscenti verso gli apparati di intelligence, in questo caso specifico l’AISE, il nostro servizio che si occupa di risolvere problemi fuori dal territorio nazionale, per avere avuto la capacità di chiudere la partita e riportare ai suoi affetti la cooperante rapita nel 2018. Va anche ricordato che il sequestro si svolse in modo, per così dire, anomalo, ovvero stando a quanto ci è dato sapere, fu operato da elementi kenioti e somali appartenenti alla criminalità locale che pianificarono ed attuarono l’azione in maniera rocambolesca, quasi raffazzonata, attuando una fuga dal Kenya verso il confine sud della Somalia, non priva di difficoltà e di aspetti gestiti in maniera parrebbe tutt’altro che “professionale”.
Quindi una vicenda criminale che poi ha assunto i contorni di una minaccia terroristica?
Sembrò da subito che si fosse trattato quasi di una occasione colta al volo da banditi locali, smaniosi di cedere l’ostaggio a chi potesse poi portare avanti le fasi successive del sequestro in modo più organizzato di quanto non fossero in grado di fare loro stessi. Ricordiamoci infatti che le autorità keniote sin da subito indirizzarono le indagini in maniera decisa ed operarono arresti anche fra coloro che potrebbero essere stati alcuni tra gli autori materiali del gesto.
Come hanno lavorato le autorità italiane?
A una prima fase di grande fermento e di attività di investigazione seguì un lungo periodo di stasi, nel quale sembrerebbe che la nostra intelligence avesse consapevolezza dell’area, ancora in Kenia, nella quale la Romano era tenuta prigioniera, una area invero molto vasta nella quale la banda di sequestratori avrebbe più volte cercato di superare il confine ed entrare in Somalia, senza riuscirvi con la facilità che forse si aspettavano. Il timore dei nostri apparati di sicurezza era che i banditi cercassero di vendere l’ostaggio al temutissimo gruppo terroristico somalo degli al Shabab, cosa che avrebbe reso particolarmente complesso provare ad aprire un canale di negoziazione e che avrebbe fatto crescere esponenzialmente il rischio corso dalla Romano. Sia come sia, la Romano arriva in Somalia e sapremo solo, forse, tra qualche settimana, chi la detenesse e come fosse composto questo gruppo.
In questi mesi si sono susseguite molte indiscrezioni, come sono state scremate quelle attendibili dalle altre?
In questi lunghissimi mesi si sono succedute informazioni trapelate dal suo nascondiglio, con la nostra intelligence che non ha mai mollato la presa, continuando nell’opera silenziosa ma preziosissima, di raccolta di informazioni, di ascolto elettronico di comunicazioni (i nostri alleati hanno strumenti potenti puntati verso quell’area, in grado di vedere ed ascoltare, per ovvie ed evidenti ragioni…) di dialogo con attori locali, di tessitura di rapporti e contatti con soggetti che fossero in grado di chiarire lo scenario e grazie ai quali elaborare una strategia percorribile. Una volta scongiurato il pericolo della regia di un gruppo terroristico, che come è facile immaginare, è più interessato ad aspetti diversi da quelli del capitalizzare la cifra del riscatto, si è probabilmente passati alla negoziazione con qualcuno dei sequestratori.
Quindi, alla fine, era questione di negoziare un riscatto…
Sarà bene tenere a mente che l’idea del tanto “basta pagare” è quanto di più lontano esista dalla realtà operativa di accadimenti come questo. Bisogna essere certi della esistenza in vita del sequestrato e bisogna avere la certezza che la cifra, certamente considerevole, non finisca nelle mani sbagliate come parrebbe essere accaduto più volte nel teatro somalo, che è pieno di scaltri intermediari pronti a cogliere le occasioni che si presentano. Questo per dire che il pagamento di un riscatto è certamente quanto di più logico possa accadere, ma che per mettere in linea i vari punti che compongono una siffatta catena di eventi e per far di che tutto si concluda nel migliore dei modi, c’è bisogno di professionisti e di capacità operative di primissimo livello.
Però la percezione diffusa è che l’Italia sia un facile pagatore in queste vicende
Si è portati a pensare che la nostra sia una nazione che, da sempre, risolve questo tipo di situazioni unicamente attraverso il pagamento di un riscatto, ma vorrei specificare come, contrariamente a ciò che si immagina, anche paesi che da sempre mostrano pubblicamente la loro faccia più truce ed una ostentata intransigenza nel negare qualsiasi negoziazione con i sequestratori, scendano poi in maniera riservata a più miti consigli una volta di fronte al problema. Non dimentichiamo infatti che esistono infiniti modi di trovare un accordo, e che se anche non si vuole pagare direttamente un riscatto, si possono tentare moltissime strade per mettere sul piatto della bilancia, proposte altrettanto allettanti rispetto al vil denaro.
Perché non si è optato per una soluzione ‘all’americana’, penso alla vicenda della Maersk Alabama e al comandante Richard Phillips
Esiste certamente l’opzione tattica della liberazione operata attraverso un blitz delle Forze Speciali, ma questa è sempre, da tutti, considerata come “estrema ratio” tanto più in un area come quella somala, nella quale sarà bene ricordarlo, sono già caduti sul campo in tentativi analoghi, operatori di blasonatissimi reparti di Paesi nostri alleati.
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