Cultura

Il pugno d’acciaio che distrusse l’Europa

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È il settembre del ’43, Lui è ancora sul Gran Sasso e l’alleato germanico la fa da padrone in tutta la Penisola, o quasi. Su una strada sterrata dell’Alta Sabina all’aspirante federale Arcovazzi Primo, nato a Cremona nello stesso mese del Duce, si rompe il side-car.

Passa l’alleato germanico sotto forma di camion pieno di uomini della Wehrmacht. Arcovazzi, che al secolo si chiama Ugo Tognazzi, li ferma e loro riparano la forcella.

“Visto come funziona il Ro-Ber-To?”, fa lui tronfio come un tacchino al Professor Bonafé, l’antifascista che sta scortando verso le patrie galere di Roma. “Il Roberto!?”. “Sì. L’Asse, il Roma-Berlino-Tokyo. In-di-strut-ti-bi-le…”.

Intanto i tedeschi gli fregano il mezzo meccanico: ottimo per ripartire verso il Brennero.

Il più grande errore degli ultimi 150 anni

La storia di quel side-car raccontata ne “Il Federale” di Luciano Salce, film dolce-amaro del 1961, ha inizio in una stanza della Cancelleria di Berlino il 22 maggio del 1939.

Ottant’anni fa, esatti.

Se c’è una data che si dovrebbe ricordare come uno dei peggiori errori politici compiuti da un governo italiano, nell’ultimo secolo e mezzo (ed in politica un errore è peggio di un crimine), questa è di sicuro il giorno in cui fu firmato il Patto d’Acciaio con la Germania nazista.

Due imperi destinati a durare mille anni non potevano che scrivere la loro intesa su una tavola più eterna del bronzo. Due dittature totalitarie ed espansioniste non potevano che trovare un’intesa per dividersi il mondo ed i nemici (poi in futuro chissà che sarebbe stato).

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Ecco allora che Galeazzo Ciano, ministro degli esteri del Duce, e Joachim von Ribbentrop, il suo omologo nazista, mettono i loro nomi in calce ad un’intesa che risulterà fatidica per entrambi gli uomini ed entrambi gli imperi. Ed entrambi porterà alla distruzione.

Nelle more di quel documento tra Roma e Berlino (Tokyo si unirà a Guerra Mondiale già scatenata) si stabiliva che i due regimi si stringevano in indissolubile alleanza, tanto difensiva quanto offensiva.

Una forma di duofisismo che rappresentava, per quell’epoca, una novità: mai prima di allora ci si univa nell’esplicita prospettiva di poter attaccare insieme.

Certo, le alleanze difensive erano quelle che avevano scatenato un quarto di secolo prima la Grande Guerra, ma l’esplicitare la possibilità di un attacco congiunto era un pericolosissimo e chiaro segno dei tempi e delle nature.

Stato di minorità

Altrettanto fatidico fu il richiamo allo “spazio vitale” di entrambi i paesi: l’uno al nord del Brennero, l’altro al sud. La premessa all’aggressione che di lì a poco avremmo perpetrato ai danni della Grecia, che di lì a pochissimo avrebbero loro perpetrato ai danni della Polonia, previo accordo tra un Ribbentrop reggitore dei destini d’Europa ed il sovietivo Molotov.

In fondo l’accordo per la spartizione della Polonia altro non era se non il compimento del Patto d’Acciaio: con un metodo che solo superficialmente ricordava le contrassicurazioni di Bismark, la Germania nazista saldava i tre fascismi novecenteschi. E così facendo decretava la fine del centralismo europeo.

Ugualmente l’Italia fascista, legandosi al carro tedesco, rinunciava di fatto ad ogni vera centralità nella politica continentale e, creando le basi per le distruzioni che avrebbe patito nel giro pochi anni, anche di una minorità economica che sarebbe venuta meno solo venticinque anni dopo.

Avrebbe scritto Ciano nei suoi diari, mentre attendeva in un carcere di Verona l’esecuzione della condanna a morte, di essere stato sempre contrario a quell’alleanza sciagurata, e che tutto sarebbe stato frutto di una impuntatura di Mussolini.

La prima cosa è molto verosimile e la stessa vedova di Ciano, Edda Mussolini, lo ha sempre confermato (“Io invece ero per i tedeschi”, ha rivendicato con uguale costanza e spavalderia fino all’ultimo giorno).

La seconda lo è molto meno: Mussolini era sì capace di impuntature, ma chiudere un’alleanza con la Germania solo perché i giornali americani hanno scritto che Milano è stata fredda con una delegazione di nazisti, a esser sinceri, è versione che si regge in piedi malamente.

L’albero e i frutti

La verità è semmai che Mussolini trovò in quel Patto il compimento naturale di una politica estera basata sull’opportunismo e sul risentimento, e che sfociava nell’intesa con il suo alleato più scontato. Le democrazie demoplutogiudaicomassoniche, in fin dei conti, non gli erano poi tanto connaturali.

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Hitler, Ciano, von Ribbentrop e Goering alla cerimonia per la firma del Patto d’Acciaio (Heinrich Hoffmann/AFP)

I frutti velenosi del 22 maggio 1939 sarebbero stati raccolti dopo il 25 luglio: mentre Mussolini è ancora – per poco – al Gran Sasso e Primo Arcovazzi corre dietro alla sua motocicletta requisita, il Reich ha occupato l’Italia accusandola di tradimento. Una pace separata non era certo stata prevista da Ciano e Ribbentrop.

Tempo pochi giorni e sarebbero state le giornate di Salò e della morte della Patria, con i resti del regime fascista divenuti collaborazionisti non solo della repressione della guerriglia partigiana, ma anche in occasione dei rastrellamenti dell’Olocausto.

Una questione d’onore: i patti sono da rispettare. Ma fare un patto con i peggiori assassini della Storia non può avere altro effetto che quello di renderti  loro complice.

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