Gabriella Gandossi di Nembro, provincia di Bergamo, ha perso il marito Antonio per coronavirus il 7 marzo scorso. Da allora, ha provato in tutti i modi a capire se anche lei ha contratto, da asintomatica, l’infezione.
Non c’è riuscita e ha ripreso il suo lavoro di consulente con lo scrupolo, dettato dal suo senso civico, di non incontrare per adesso i clienti. “Ma prima o poi dovrò farlo – spiega all’AGI – ho bisogno di lavorare e, nel frattempo, voglio sapere”.
Con la fine della prima fase della pandemia e il tentativo di ritorno alla normalità, emerge con urgenza il tema dei tanti parenti di persone morte col Covid_19, che spesso con loro hanno vissuto parte se non tutta la malattia in casa, e si rigettano nella routine fuori dalle proprie mura senza certezze, con l’ipotetico pericolo di contagiare gli altri.
Gabriella le ha provate tutte quando ha visto che nessuno dopo la scomparsa di Antonio la chiamava per sottoporla a un tampone o un test. Si è rivolta al Comune, al sostituto del sostituto del suo medico che era in malattia, all’Ats. Alla fine, dopo avere scoperto che negli elenchi dell’azienda territoriale sanitaria a fianco del nome del marito non era indicato nessun familiare, dopo mille telefonate è riuscita a farsi inserire negli elenchi per i test sierologici. Ieri, la beffa. “Dopo l’ennesimo sollecito, mi hanno detto che la mappatura sieriologica è terminata. Chi è dentro è dentro, chi no no ela Regione non ha messo altre indicazioni sul prosieguo del test”.
Una dipendente di una banca milanese racconta che hanno chiamato in filiale i parenti di alcune persone morte per Covid, prendendo un appuntamento per i prossimi giorni. “Se il sistema sanitario ci dice che possiamo venire senza tampone – hanno messo le mani avanti, suscitando le inquietudini dei bancari – noi lo facciamo”.
Sul sito ‘Noi denunceremo’, diventato la triste e rabbiosa piazza virtuale di chi sostiene di avere subito ingiustizie per la morte dei coingiunti, ormai una marea di più di 50mila persone, sono in tanti a esporre una situazione analoga a quelle di Gabriella.
“Papà ci ha lasciati per il Covid il primo aprile – scrive il giovane Lorenzo – venti giorni dopo la sua morte ci ha chiamati Ats Bergamo perché voleva parlare con lui per il secondo tampone. Il primo era stato fatto l’8 marzo. Io e mia mamma gli siamo stati vicini per dieci giorni. Nessun tampone, nessun test sierologico nonostante le richieste. Risposta: ‘State bene, non vediamo le necessità di farvelo’. Ora noi dovremmo pagare per verificare se l’abbiamo contratto?”.
La storia di Emy: “Quando mio marito era ricoverato, Ats aveva telefonato ben due volte dicendo che sarebbero venuti a farci il tampone. Abbiamo continuato a richiederlo, ma la risposta è sempre stata negativa. Ora lui non c’è piu. Insieme allo strazio, stiamo vivendo anche questa ingiustizia. Io sarei disposta a donare il plasma se nel mio sangue ci fossero anticorpi ma ho la sensazione che rimarrò con questo dubbio finché non mi recherò in qualche struttura privata per sottopormi al test”.
Tamara si porta avanti e chiede consigli su laboratorio dove poter fare il test “dopo che mio padre è morto per Covid e siamo stati lasciati soli, come moltissimi, senza tampone”. Emanuela Palazzi, che ha perso il papà, racconta di avercela fatta dopo insistenze durate più di un mese: “Quando è andato via il papà, si sono ammalati mia mamma, non ospedalizzata ma a casa con ossigeno e flebo, e mio fratello. Ho fatto tante litigate al telefono, ora, finalmente, ci hanno chiamati”.