Numeri che si accavallano, voci che si sovrappongono, un presidente di Regione che indossa la mascherina in diretta Facebook: la comunicazione al tempo del coronavirus è stata finora all’insegna dell’impatto forte e le conseguenze si riflettono nelle strade deserte di metropoli come Milano e nella psicosi che si è innescata all’estero nei confronti degli italiani.
L’immagine di Attilio Fontana che annuncia di essere stato a contatto con una persona positiva al coronavirus è un esempio di trasparenza o un eccessivo catalizzatore di ansia? Gianluca Comin, esperto di comunicazione di crisi, non ha dubbi: “l’emergenza è stata sovraccaricata con una comunicazione eccessiva, ripetitiva e con toni preoccupanti”.
“Anche il solo fatto di rappresentare la crisi dalla Protezione Civile fa passare il messaggio di una calamità nazionale e tutto questo ha creato ansia e timore nella gente” aggiunge Comin, docente di Strategie di Comunicazione e tecniche pubblicitarie alla Luiss e fondatore della società di consulenza Comin&Partners.
Un punto su cui concorda Federico Unnia consulente in comunicazione di crisi. “Nel momento in cui si è correttamente centralizzata la regia sulla Protezione civile” dice, “sarebbe stato più utile far comunicare prevalentemente loro. Credo poi che nell’immaginario collettivo abbia spaventato di più il blocco di 11 paesi di quanto il pericolo reale del coronavirus”.
Incalza Comin: “Non sono state considerate abbastanza le ripercussioni all’estero di una comunicazione così emergenziale, soprattutto l’impatto che avrebbe avuto sul turismo, sulle imprese e sul commercio. Gestire un evento di questa portata ha delle complessità uniche. Le informazioni sono frammentarie, in veloce e inaspettata evoluzione, condizionate da fattori spesso non controllabili come l’informazione dall’estero”.
A quasi una settimana dall’esplosione della crisi in Italia si cerca di fare una valutazione di quella che è stata la trasmissione delle informazioni in questi giorni, da parte delle istituzioni e del mondo scientifico, e di come è stata trasmessa dal mondo dei media. E Mario Morcellini, Commissario Agcom e consigliere alla comunicazione della Sapienza, assolve il Governo. “Uno dei vizi del populismo è di prendersela sempre con le istituzioni” dice all’Agi, “Nei momenti di crisi sociale questo è il peggior lavoro che può fare l’informazione. Non solo perché c’è il rischio di fare il gioco de certe voci, come se la soluzione dei problemi dipendesse dalla struttura di governo, ma perché in tempi di ansia collettiva non si può aggiungere quella della possibile assenza o messa in crisi del governo. E questo vale per qualunque governo sia in carica. Quali sono le argomentazioni di chi ne critica la comunicazione e cosa avrebbe fatto di meglio?”
Indulgente con l’esecutivo è anche Unnia. “Si è trattato di un evento inatteso, che è coinciso con la stagione influenzale (di per sé non conosciuta a fondo sui suoi effetti) e di forti tensioni politiche. Non mi sento di muovere critiche, rilevo solo che in molti si sono fatti trascinare dal desiderio di rassicurare, finendo per riempire di contenuti spezzoni di informazione, spesso incomplete e non certe”.
Per Comin quello che è mancato è stato il coordinamento tra il mondo dei media e quello delle istituzioni. “Al governo non si può certo rimproverare di non essere stato tempestivo: non si è fatto cogliere impreparato e ha tenuto la situazione operativa sotto controllo” dice, “ma avrebbe potuto riunire i maggiori editori e direttori per definire, con loro, una strategia di comunicazione utile ai cittadini e al Paese. La censura ex post non può essere la soluzione. Quello che è mancato è una visione di medio periodo sulle conseguenze del tono e dello stile di comunicazione. Siamo caduti in quello che l’Oms ha definito infodemia: una epidemia informativa. Nelle crisi va evitato che diverse voci si esprimano in autonomia e in contraddizione, come sta accadendo con le voci nel Governo, nelle Regioni o dei diversi esperti comparsi sulla scena. Le informazioni vanno centralizzate in modo che la comunicazione sia uno strumento utile a evitare ansia e panico”.
Anche Unnia è d’accordo sul fatto che sia mancato il coordinamento con i media. “Se ci si pensa” dice, “18 pagine di un quotidiano su questo evento, indipendentemente dalla sua gravità, trasferiscono ansia e preoccupazione. L’informazione, stampa, tv, social si è inseguita e ha finito per alimentare un flusso continuo. Il commento ha superato spesso i fatti reali. E questo, pensando al rigore scientifico, non è positivo”.
Morcellini, da parte sua, sottolinea il modo diverso di ricevere le informazioni da parte di strati diversi della società. E la necessità di adottare un linguaggio che si rivolga “a quel 70 per cento di
Periferie esistenziali, piuttosto che a quel 30 per cento che ha più autonomia di analisi nei confronti della comunicazione”. “Il nostro obbligo etico, soprattutto nelle emergenze, dovrebbe essere quello di semplificare al massimo la comunicazione evitando gergalismi e termini specialistici” spiega, “Il decalogo si come lavano le mani è più efficace dell’intervista a un virologo”.
“Nonostante il confronto con le criticità assimilabili del passato non facesse sperare in nulla di buono, chi parla di informazione disastrosa sbaglia” dice ancora il Commissario Agcom, “il giornalismo italiano ha, tra i suoi non pochi vizi, un aspetto pazzesco: ogni volta che c’è una crisi sembra che non si ricordi dei precedenti, ‘smagnetizza’ gli episodi simili da cui dovrebbe aver imparato. E invece questa volta non trovo che abbiano riproposto gli stessi menu e la stessa carica ansiogena, quanto piuttosto equilibrio tra i fatti che stanno avvenendo e come vengono riportati”.
E sui limiti del rapporto tra stampa e mondo scientifico sono d’accordo tutti. “Ha pesato la scarsa cultura scientifica di questo Paese” dice Unnia, “vedere in tv un dentista disquisire di coronavirus mi è sembrato curioso”. “Il giornalismo e la società italiani scontano un handicap serio” incalza Morcellini, “la divulgazione sembra una disciplina accademica invece che il paradigma di base della comunicazione. Da questa crisi bisogna uscire con un supplemento di conoscenza”.
Contro il “proliferare di esperti e professionisti della comunicazione scientifica” si scaglia Comin. “Per il cittadino è spesso difficile distinguere il luminare da colui che millanta competenza. Una situazione che i social network, alimentati per gioco o per interesse, da speculatori hanno aggravato enormemente. Pensiamo ai giorni scorsi quando fake news come la chiusura delle scuole o il blocco dei voli dall’Italia verso alcuni Paesi sono sembrate notizie credibili, ma erano dei falsi che hanno reso il clima ancor più drammatico e ansiogeno”.
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