Un ronzio che fa alzare la testa, il cielo puntellato da migliaia di insetti indefiniti, mettiamo a fuoco: sono api. O vespe? Prima reazione, chiedere aiuto ai vigili del fuoco. Siamo in centro a Milano, e non ci si aspetta questa invasione. Gentilissimi, ci fanno inviare delle foto dello sciame che ormai si è messo comodo, scegliendo il gazebo sotto il glicine. E così ci dicono che senza dubbio sono api e non vespe. Un sollievo forse, ma anche un problema da risolvere: loro non intervengono in questi casi. Per convincere le api a sloggiare serve un apicoltore.
La soluzione è prendere un numero da internet e la fortuna ci assiste: il ‘salvatore’ si chiama Mauro Veca, titolare dell’omonima Apicoltura, è espertissimo e disponibile al soccorso. “Succede spesso in questo periodo dell’anno, diciamo da aprile a maggio, che ci siano degli sciami in giro – spiega – hanno seguito la regina. È il periodo riproduttivo”.
In città?
“Stanno molto meglio qui, ormai nelle campagne si usano troppi prodotti chimici per l’agricoltura”. Insomma tra i due mali è meglio lo smog delle auto.
Comunque la ‘sciamatura‘, cioè la partenza da una colonia di una regina seguita da una parte delle operaie, è un fenomeno del tutto naturale, parte del ciclo naturale delle api, e rappresenta il modo in cui l’alveare si riproduce. Quando raggiunge la sua dimensione massima, si divide, creando una nuova famiglia. L’ape regina che abbandona l’alveare non lascia orfani: lo fa solo qualche giorno prima che nasca la nuova regina.
Veca ci dice che verrà nel tardo pomeriggio quando tutte le api si sono ‘poggiate’. Il momento arriva, e la curiosità prevale sul timore di una puntura: vogliamo vedere come le incanterà. Ha con sè un’arnia. Lui è da solo. E loro, le api, “sono almeno 30 mila“.
Come trentamila?
“Sì un’arnia può contenerne fino a 50 mila, non la riempiremo proprio tutta”. Si comincia. Prende un pezzo di iuta, “ma si può usare anche corteccia, fieno, cotone, sempre materiali non trattati”, gli dà fuoco e lo mette nell’affumicatore, il fumo che si sprigiona servirà per disorientarle. Poi prende dall’arnia un favo, è un telaio in legno con un foglio sottile di cera, che invoglia le api a costruire le note celle esagonali per contenere le larve della covata e per immagazzinare miele e polline. Lo avvicina all’alveare e lo tiene fermo finché non si ricopre totalmente di api. A quel punto lo ripone delicatamente nell’arnia e ripete l’operazione con un altro favo. Ce ne sono dieci da riempire, così andiamo avanti per un paio d’ore.
Le api sono tranquille ma quando l’apicoltore avvicina molto l’affumicatore iniziano a volare furiosamente, dando vita a una scena degna di un film di Hitchcock. A tranquillizzarci ci pensa Mauro, sia perché tutto questo lo fa a mani nude, mettendo la visiera solo in pochissimi momenti, sia perché ci spiega che finché “le api sono in uno sciame sono mansuete. Mentre una volta ‘a casa’, nell’arnia, diventano aggressive se ci si avvicina perché difendono il territorio. Non potrei mai fare questo stesso lavoro senza protezioni con un’arnia” precisa. A fine giornata, migliaia di api hanno ‘abboccato’. “Ma non sappiamo se l’ape regina è tra quelle rimaste fuori”.
Dunque che si fa?
“Vi lascio l’arnia per la notte, così se la regina è dentro, sentendo il suo richiamo arrivano anche le altre che sono rimaste in giro. E domani pomeriggio vengo a recuperare tutto”.
Il giorno dopo, si ricomincia daccapo. Alla simpatica regina piace molto il nostro terrazzo, lei e le api operose sono di nuovo tra fiori e foglie. Dopo altre tre ore, tra un’affumicata e una scrollata ai rami, sono ‘quasi’ tutte tornate nell’arnia. Che viene chiusa e portata in un posto dove staranno molto meglio: in una cascina medioevale nel Parco delle Cave. Li’ le nostre amiche, se si danno da fare, potranno ricambiare l’ospitalita’ con 50 chili di miele all’anno. Per dovere di cronaca, c’è da dire che un gruppetto sparuto di ‘scissioniste’ sono rimaste a farci compagnia, sul terrazzo.