“Abbiamo incontrato anche anime generosissime. Dio benedica costoro e tutti i buoni, perdoni i cattivi e i tristi”. È l’ultima lettera di Renato Dalla Palma, poco più che ventenne, scritta pochi giorni prima di essere deportato al lager di Mauthausen nel febbraio 1945, e da lì al sottocampo di Gusen, chiamato “l’inferno degli inferni”, dove morì in modo atroce neanche un mese dopo, probabilmente nella rete di gallerie sotterranee trasformate dalle SS in una sorta di immensa fabbrica di guerra lontana dalla luce del sole. Partigiano cattolico, era stato arrestato dalla polizia tedesca in seguito ad una delazione. Uno dei tanti, tantissimi, italiani finiti nei campi di concentramento nazisti. Almeno 27 mila deportati ‘politici’, più circa 8000 ebrei, finiti dall’Italia nel sistema dei lager gestiti dalle SS.
Storie che oggi – allo scadere del 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz – riemergono nel tentativo di contrastare il progressivo oblio della memoria. Storie spesso inedite, molte delle quali, raccolte dall’Aned (Associazione nazionale ex deportati), si possono ora trovare nel sito mauthausen-memorial.
Persone comuni precipitate, per mille motivi diversi, nel vortice degli orrori del Terzo Reich. Schegge di storie che servono oggi a ricomporre e tenere vivo il quadro più largo dello sterminio nazista. Operai, architetti, artigiani, intellettuali, amministratori locali, antifascisti, imprenditori, sportivi: gente comune, travolta dall’abisso del nazismo. Spesso per le proprie idee.
Come Enrico Bracesco. Lavorava alla Breda di Sesto come capo attrezzista. Ma di notte trasportava armi e viveri alle brigate partigiane nella Brianza. Arrestato, trasferito a San Vittore, poi portato a Fossoli. Da lì il viaggio della morte verso Mauthausen: in una colonna di autocarri chiusa dai side-car tedeschi, poi a bordo di barconi sul Po fino a Verona, da cui raggiungerà il campo di Bolzano e infine su un carro bestiame fino al lager.
Enrico, che durante un incidente l’anno primo aveva perso una gamba, è infine obbligato a marciare con le stampelle gli ultimi 5 chilometri fino al campo, dove viene “selezionato” per il castello di Hartheim, in quanto considerato “inabile al lavoro”.
Hartheim era uno dei più famigerati centri per la sperimentazione medica tedesca del progetto ‘Aktion T4’, il programma nazista di eutanasia che prevedeva la soppressione delle cosiddette “vite indegne di essere vissute”. Nessun prigioniero ne è mai uscito vivo. Il documento ufficiale che certifica la morte di Enrico Bracesco porta la data del 15 dicembre 1944.
O come Diego Biagini, operaio tessile di Prato, arrestato dopo lo sciopero generale dei primi di marzo ’44. Ai familiari dissero “che era partito in un treno pieno di uomini”. Matricola n. 56962, morì l’8 aprile 1944 nel ‘Sanitaetslager‘ di Mauthausen. L’unico, in assoluto, la cui famiglia ottenne una comunicazione ufficiale dalle autorità tedesche, secondo la quale morì “a causa di un’incursione nemica”. Una menzogna, assurda nella sua inutilità.
Martiri venuti dalla vita quotidiana, spesso quelli che oggi noi chiameremmo “eroi borghesi”. Tra questi il critico d’arte e studioso della storia dell’architettura Raffaello Giolli. Nel 1931 viene estromesso dall’insegnamento liceale perchè si rifiuta di prestarsi al giuramento fascista. Non a caso nel 1940 viene internato, insieme al figlio diciannovenne, in un campo di concentramento in Abruzzo e poi assegnato al domicilio coatto.
Nonostante la sorveglianza, prende contatti con i partigiani e, tornato a Milano, cerca di organizzare la resistenza tra artisti e intellettuali. Nel settembre ’44 la sua abitazione è perquisita, i suoi scritti sequestrati. Sottoposto a interrogatori durissimi, per evitare conseguenze ai familiari si getta da una finestra procurandosi fratture multiple. Anche per lui è l’inizio del viaggio della morte: dal carcere di Milano al campo di Bolzano, da qui a Gusen, dove per le terrificanti condizioni si ammala di polmonite. Come raccontò l’amico pittore Aldo Carpi, le Ss decisero di “disinfettarlo”. Ossia fu gasato, il 6 gennaio 1945.
Grandi architetti, come Giuseppe Pagano Pogatschnig. Storie che mostrano come da vite quotidiano si potesse scivolare, quasi senza accorgersene, nell’eroismo e poi nella morte. Fu direttore di riviste come La Casa Bella (poi Casabella), sulle cui pagine difese l’architettura razionalista contro il monumentalismo celebrativo fascista. Portano la sua firma l’istituto di Fisica dell’università di Roma e la sede della Bocconi a Milano. Arrestato il 9 novembre 1943 a Brescia, riuscirà a fuggirne in modo spettacolare insieme ad altri 260 detenuti, approfittando di un bombardamento.
Finito di nuovo agli arresti per i suoi tentativi di riprendere contatto con la Resistenza, dopo un passaggio alla famigerata Villa Triste di Milano, si troverà a Mauthausen alla fine del novembre dell’anno dopo con cucito sul petto il triangolo rosso dei deportati politici: con i russi già sulla linea dell’orizzonte, stremato dalle percosse e dal lavoro nelle gallerie, muore il 22 aprile 1945, con la guerra che è quasi finita. L’ultimo struggente messaggio, consegnare ad un amico, era per sua moglie Paola: “è probabile che la nostra bella vita così intensamente felice sia definitivamente interrotta. Abbi forza. Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa pensa a riprenderti, non abbandonarti alla malinconia. La vita di farà ancora sorridere e io ne sarò tanto felice. Bacia la bimba: essa possa vedere il nuovo mondo”.
Una vita di passioni, come quella di Guido Valota: suonava il violino, aveva lavorato alla Falck e poi alla Breda. La sua colpa era quella di conservare clandestinamente dei bigliettini su cui aveva segnato il denaro che riceveva e poi dava alle famiglie degli operai entrati in clandestinità. Guido il 14 marzo 1944 viene arrestato di notte, a casa, dai fascisti.
Come racconterà il figlio Giuseppe, dopo l’usuale odissea tra San Vittore, Bergamo, l’aeroporto di Schwechat e le grotte di Moedling, durante la marcia della morte di 30 chilometri al giorno in direzione Mauthausen, senza cibo e trainando i carri delle masserizie dei tedeschi, Guido crolla: un nazista gli strappa tutte le matricole cucite sulla divisa, col tallone dello stivale gli strappa anche il braccialetto e lo finisce sparandogli un colpo alla nuca. Non era valso niente il fatto che alla Kommandatur la notte di Natale del ’44 l’avessero costretto a suonare il violino in cambio di un pesce sotto sale. Che Guido dividerà in baracca insieme ai suoi compagni Sordini, Croci, Arrisari, Saladin e Cima. Fu la loro notte di Natale.
Era invece marchiato col numero 57467 il diciottenne Danilo Veronesi, di Caprino Veronese. Aveva fatto del volantinaggio, poi insieme ad alcuni compagni, trovò dei fucili in una struttura militare abbandonata da nascondere in degli orti della zona, con l’idea di passarli poi ai partigiani. Nella notte tra l’1 e il 2 gennaio 1944, un reparto della brigata fascista ‘Muti’ fa un’incursione nel quartiere, minacciando padri e figli di fucilazione se non venivano immediatamente consegnate le armi. Di fronte alla certezza di una fine drammatica per tutti, Danilo svela il nascondiglio e consegna i fucili.
Finito a San Vittore, e da lì deportato a Mauthausen e infine trasferito alle gallerie del sottocampo di Ebensee. “Era un ragazzo straordinario”, racconterà molti anni dopo Roberto Castellani di Prato, compagno di prigionia, uno dei pochi italiani sopravvissuti. “Pensava sempre agli altri, li aiutava, chi cadeva in terra se lo caricava sulle spalle per riportarlo nel campo, senza guardare se era italiano, polacco o ebreo”.
Dopo un po’ – siamo ancora nel ’44 – Danilo si offre volontario per un tentativo di fuga. Avviene il 9 maggio: una corsa durata tre giorni, finita in una baracca distanti soli 15 chilometri dal campo. Viene scoperto da un guardiacaccia, che lo tramortisce colpendolo alla testa con una pala. Riportato al campo, dopo un interrogatorio e un pestaggio, il comandante del campo, Otto Reimer, gli aizza contro i cani di guardia. Danilo muore dilaniato. La mattina seguente il corpo straziato viene esposto sul piazzale centrale del campo davanti a tutti i deportati. Poi il cadavere viene gettato sui fili della recinzione elettrificata: forse Reimer voleva ingannare la storia, scrivendo sui registri del lager “suicidio per elettricità”. Ma, alla fine, oggi è la storia a rendere giustizia a Danilo. E a Renato, Enrico, Giuseppe, Raffaello, Guido.
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