Vanno risarciti i danni agli eredi di un dipendente morto a seguito di una malattia conseguente al fumo passivo nel luogo di lavoro, anche se all’epoca dei fatti non era ancora entrata in vigore la legge Sirchia sul divieto assoluto di fumo nei locali chiusi. Lo sottolinea la Cassazione, affermando che, in presenza di “eventi lesivi verificatesi in pregiudizio del lavoratore e casualmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro” il codice civile (articolo 2087, in materia di sicurezza sul lavoro) “impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato”.
Il caso in esame riguardava l’istanza di risarcimento presentata dai familiari di un dipendente della Asl Roma D, morto nel 2002 dopo due anni di malattia, il quale lavorava in un ufficio di “dimensioni ridotte” con due colleghi “entrambi fumatori”, reso “insalubre” anche dalla presenza di fotocopiatrici, nonché attiguo a un centro di radiologia.
L’azienda datrice di lavoro, dopo essere stata condannata in appello a risarcire il danno, aveva presentato ricorso in Cassazione nel quale osservava che “le conoscenze scientifiche, al tempo dei fatti di causa, non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cosiddetto ‘fumo passivo'”, e che erano state adottate “tutte le misure di prevenzione, diligenza e prudenza e le dovute cautele secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all’epoca, che non ponevano alcuna restrizione imperativa e tassativa in materia di fumo”.
La legge risalente al 1975, si rilevava ancora nel ricorso, poneva divieti di fumo “in luoghi contemplati in un elenco tassativo”, quali le “corsie degli ospedali”, sottolineava la Asl, “senza che fosse applicabile un’estensione normativa della disposizione, essendo peraltro la previsione collegata a possibile rischio incendi e a una cognizione del nesso causale tra fumo passivo e insorgenza di patologie professionali che escludeva la patologie tumorali”.
Di diverso avviso la Suprema Corte, che, con una sentenza depositata oggi dalla sezione lavoro, ha rigettato il ricorso dell’azienda sanitaria: “Non puo’ dubitarsi – scrivono i giudici del ‘Palazzaccio’ – della correttezza delle argomentazioni spese dalla Corte del merito con riferimento ad una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavoratori, al di la’ della introduzione di specifiche norme contenenti divieti di fumo in ambienti diversi da quelli indicati nella normativa del 1975 e del 1994, posto che doveva ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi del fumo e dei raggi degli apparecchi esistenti nel locale contiguo adibito ad esami radiologici”. L’esposizione “al fumo dei colleghi di lavoro” non e’ stata “impedita – conclude la Corte – con efficace predisposizione di misure preventive da parte del datore di lavoro”.
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