Olivier Morin / Afp
Imane Fadil, teste chiave nel processo Ruby
Non le hanno ancora messo messo un fiore sulla tomba, a otto mesi dalla fine, perché credono che la Procura di Milano si sbagli quando parla di “morte naturale senza nessuna responsabilità”. Per chi l’amava, Imane Fadil, la testimone dei processi Ruby che si è spenta il primo marzo scorso per una malattia rara (aplasia midollare) dopo un mese di agonia, non è stata uccisa a 34 anni da un destino nero.
La mamma e i fratelli, attraverso l’avvocato Mirko Mazzali, rimettono ora sul tavolo tutti gli scenari esclusi dai magistrati, dall’avvelenamento alla colpa medica, presentando un’istanza di opposizione all’archiviazione dell’inchiesta per omicidio volontario. Chiedono nuove perizie sulle spoglie, già martoriate da decine di esperti, della giovane donna di origine marocchina.
Vogliono capire perché “manca una valutazione globale della contemporanea presenza di tante sostanze anomale, in quantità non irrilevanti, nel corpo di Fadil”, tra cui la piridina, una sostanza molto tossica. Sono disposti anche a rivolgersi a luminari stranieri: “Va allargato lo spettro di possibili cause di avvelenamento da esplorare, anche avvalendosi di centri esteri, particolarmente specializzati.I consulenti della Procura hanno esaminato solo una minuscola parte delle sostanze, fondandosi su criteri selettivi molto stretti”.
Ripropongono il tema della radioattività che aveva aperto scenari apocalittici. “Si è perso per strada – si legge nel documento di opposizione all’archiviazione di qualche settimana fa – ogni riferimento alla presenza di radiazioni aplha e gamma sui campioni prelevati il 12 febbraio 2019 dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano”.
I magistrati avevano spiegato, attraverso gli esperti incaricati, che c’era stato un errore in quella rilevazione, da cui era nata anche la necessità dell’utilizzo di precauzioni speciali il giorno dell’autopsia. C’è poi l’aspetto paventato della possibile colpa medica “nel ritardo della diagnosi in relazione alla possibilità di una cura efficace della malattia”, tenendo conto che “un’anticipata disponibilità del dato di istologia midollare avrebbe consentito, qualora correttamente interpretato, l’avvio dell’opportuna terapia immunosoppressiva in una fase ancora lontana da una condizione clinica di vero e proprio end stage”.
Nel gigantesco dossier finale, la squadra di professionisti indicati dalla Procura, scriveva che “le scelte terapeutiche degli ultimi giorni, successive alla diagnosi formale di aplasia midollare, non sono state coerenti con la diagnosi”, ma precisava che “non ci sono indicativi profili di colpa medica” perché comunque sarebbe già troppo tardi per una terapia o un trapianto del midollo. Ora tocca a un giudice decidere se ci sono nuovi accertamenti da compiere per capire se Imane Fadil poteva essere salvata da una morte indicibile.
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