AGI – Undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese. Per far terminare la Grande guerra nel 1918 non si risparmiò una forte carica simbolica per fissare il momento in cui le armi dovevano tacere, ma non venne risparmiata la cieca ambizione umana di protagonismo dell’ultimo colpo sparato in quel conflitto epocale. Il fato ci mise un altro undici: quello, in migliaia, dei morti e dei feriti delle ultime sei ore di combattimenti che vanno dalla firma dell’armistizio al momento del cessate il fuoco. Le trattative erano iniziate il 9 novembre nella foresta di Compiègne, in Francia, in un vagone ferroviario. L’Austria-Ungheria era uscita di scena il 4 sottoscrivendo nelle mani italiane la resa di Villa Giusti, la Germania del Kaiser non aveva più la forza di continuare a combattere per la situazione interna non più gestibile e l’esercito ormai in ginocchio nonostante fosse ancora fuori dai confini del Reich.
Sommario
La fine di quattro imperi e il vento della rivoluzione
A Berlino, a Monaco, a Kiel e in altre otto città tedesche avevano iniziato a sventolare le bandiere rosse che auspicavano la rivoluzione come accaduto l’anno prima in Russia; si erano verificati ammutinamenti nei reparti e diversi centri, come Aquisgrana, e nodi ferroviari strategici, erano sotto controllo degli insorti. Alle 11 di quel 9 novembre arrivò sul tavolo di Guglielmo II, mentre era a colloquio con i suoi comandanti per schiacciare la rivolta con l’esercito, un telegramma in cui si informava che a Berlino i soldati avevano disertato in massa e che la situazione non era più gestibile: la prima di una serie di note sconcertanti. Quello era il giorno del crollo, al quale il cancelliere principe Max di Baden cercò di porre un argine annunciando l’abdicazione del Kaiser, istituendo la reggenza e passando la sua carica al socialista Friedrich Ebert. Gli spartachisti avevano preso il potere nella capitale e Karl Liebknecht aveva proclamato la Repubblica socialista tedesca. Tra le truppe venivano costituiti i soviet. Alle 17 Guglielmo II aveva deciso che l’indomani sarebbe andato in esilio in Olanda. Neppure la paura della rivoluzione e il dilagare del bolscevismo in Europa, spettri agitati dal diplomatico cattolico Matthias Erzberger per mitigare le clausole di armistizio, smosse a Compiègne la risolutezza della delegazione comandata dal Maresciallo Ferdinand Foch. Da cento giorni era in atto l’offensiva alleata e la Germania era ormai come un pugile suonato, indebolito dalla fame e preda degli spasmi sociali che attraversavano il suo corpo con 70 milioni di anime. Le condizioni per l’armistizio erano durissime e il nuovo governo tedesco non poté far altro che accettarle nella notte del 10 novembre: alle 5 dell’indomani a Compiègne, nel vagon-lit adattato a ufficio, avveniva la cerimonia della firma con decorrenza della fine delle ostilità per le 11.
L’ultimo caduto nella cieca corsa a sparare l’ultimo colpo
L’Europa che si era opposta agli imperi centrali fu scossa da una scarica elettrica di euforia, la gioia portò la gente in piazza e i militari sul campo a esultare, eppure vi furono soldati che accolsero la notizia con disappunto: come accaduto nel 1914, smaniavano per andare a combattere, e in più rispetto ad allora c’era il desiderio di vendetta per i fratelli, gli amici, i compagni caduti sui campi di battaglia della Francia e del Belgio nelle acque dell’oceano; quelli tedeschi, rimasti ligi al dovere e al giuramento, accolsero la notizia in trincea come un tradimento ai loro danni e ai loro sacrifici, una pugnalata alla schiena che il nazismo guidato da un caporale austriaco portaordini in un’unità di fanteria bavarese, Adolf Hitler, avrebbe posto a fondamento della politica militare tedesca e della vendetta che originò la seconda guerra mondiale. Alle 11 dell’11 novembre l’impero austriaco non esisteva già più: l’Ungheria se n’era andata, da due settimane era stata proclamata la nascita della Cecoslovacchia e quello stesso giorno anche la rinascita della Polonia. L’impero tedesco era solo nominale e non c’era nemmeno l’imperatore, che in Patria non sarebbe mai più tornato. Si era chiusa per sempre pure l’epopea degli Hohenzollern, dopo quella dei Romanov, degli Asburgo e dei sultani di Costantinopoli. Tutto un mondo era scomparso.
In attesa che gli orologi segnassero le 11 in punto, al fronte il desiderio dominante era che tutto finisse, ma c’era anche un sentimento minoritario di ambizione personale di voler scrivere una pagina di storia anche per chi in quella storia non voleva entrarci affatto e anzi voleva uscirne vivo. Il fante canadese George Lawrence Price aspettava di poter irrompere in un urlo liberatorio alle 11 esatte, quando un boato attraverserà mezza Europa lungo tutte le line di combattimento, invece un colpo di Mauser, forse sparato da un tiratore tedesco o forse una banale pallottola vagante, lo uccise nel villaggio di Ville-sur-Heine in Belgio: probabilmente è lui l’ultimo caduto di quella guerra, alle 10.58. O il sergente americano di origini tedesche, Henry Nicholas John Gunther, che si vuole falciato da una raffica alle 10.59 a Chaumont-devant-Damvillers in Francia. Nello stesso momento, in un altro punto del fronte, un mitragliere tedesco continuava a sgranare i caricatori senza colpire nessuno nella trincea nemica; esaurite le pallottole, fece qualcosa che lasciò a bocca aperta i soldati sudafricani: si mise sull’attenti dietro alla sua arma, si tolse l’elmetto, salutò e se ne andò. Era entrato in vigore l’armistizio.
Il vagone di Compiègne scenario di due armistizi
La pace sarebbe stata sottoscritta a Versailles nel 1919, imposta alla Germania facendo originare un altro argomento di propaganda del nazismo: il diktat. Nel 1914 quel conflitto costato più di 15 milioni di morti solo tra i soldati, che aveva falcidiato una generazione e devastato l’Europa, era stato chiamato Grande guerra perché si pensava che non ce ne sarebbe stata un’altra. Proprio nello spazio di una generazione, e proprio per i frutti malati di quella pace e per l’incapacità di costruire un sistema internazionale che scongiurasse un conflitto su grande scala, si posero le premesse della seconda guerra mondiale. L’ex caporale Hitler si sarebbe ricordato di Compiègne e del vagone dell’umiliazione della Germania, obbligando i francesi alle 18.50 del 22 giugno 1940 a sottoscrivere un altro umiliante armistizio a ruoli invertiti proprio su quel treno riportato esattamente su quel luogo nella foresta.