AGI – “Sono felicissima e onorata che ‘Cuore nero’ abbia vinto un premio così prestigioso e storico come il Viareggio”. Così il primo commento a caldo della scrittrice Silvia Avallone dopo la vittoria del premio Viareggio con il suo “Cuore nero”, edito da Rizzoli.
“È un romanzo a cui tengo in modo speciale – ha poi aggiunto la quarantenne scrittrice di Biella – perché mi ha insegnato la forza delle relazioni umane contro ogni male. Sono grata alla giuria e a questa meravigliosa, fervida, città”. Silvia Avallone e tra le voci più importanti della narrativa italiana. I suoi romanzi sono tradotti in tutto il mondo e hanno vinto numerosi premi, tra cui il Campiello Opera Prima e il Benedetto Croce – Pescasseroli. Per Rizzoli ha pubblicato “Acciaio” (2010, da cui e stato tratto l’omonimo film), finalista al premio Strega 2010, “Marina Bellezza” (2013), “Da dove la vita e perfetta” (2017) e “Un’amicizia”.
La sinossi di Cuore Nero
L’unico modo per raggiungere Sassaia, minuscolo borgo incastonato tra le montagne, è una strada sterrata, ripidissima, nascosta tra i faggi. È da lì che un giorno compare Emilia, capelli rossi e crespi, magra come uno stecco, un’adolescente di trent’anni con gli anfibi viola e il giaccone verde fluo. Dalla casa accanto, Bruno assiste al suo arrivo come si assiste a un’invasione. Quella donna ha l’accento “foresto” e un mucchio di borse e valigie: cosa ci fa lassù, lontana dal resto del mondo? Quando finalmente s’incontrano, ciascuno con la propria solitudine, negli occhi di Emilia – “privi di luce, come due stelle morte” – Bruno intuisce un abisso simile al suo, ma di segno opposto. Entrambi hanno conosciuto il male: lui perché l’ha subito, lei perché l’ha compiuto – un male di cui ha pagato il prezzo con molti anni di carcere, ma che non si può riparare. Sassaia è il loro punto di fuga, l’unica soluzione per sottrarsi a un futuro in cui entrambi hanno smesso di credere. Ma il futuro arriva e segue leggi proprie; che tu sia colpevole o innocente, vittima o carnefice, il tempo passa e ci rivela per ciò che tutti siamo: infinitamente fragili, fatalmente umani.
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