Cronaca

Riapre San Pietro. La potenza taumaturgica della bellezza 

Per capire cosa accade, in questo Vaticano che va riaprendo le porte all’uomo come Giovanni Paolo II chiedeva all’uomo di riaprirle al Redentore, conviene partire non dalla Basilica, ma dal Gianicolo. Dalla chiesa di San Pietro in Montorio: monte d’oro che si tinse di rosso nel sangue dell’Apostolo, qui sospeso ad una croce ma a testa in giù, ché al normale sarebbe stato troppo onore.

Il cancello è legato con una catena, la porta della chiesa annuncia: a mezzogiorno in punto di domenica prossima chi vorrà potrà finalmente prendere la messa. Il Tempietto, invece, chi vuole se lo guardi da lontano, dall’alto di otto gradini di travertino che lo dividono dalla piazzola sottostante, tutta polvere e sterpaglie e vista su Roma.

Non importa la distanza: è comunque bellezza pura, grande, micidiale, tale e quale a quella descritta da Sorrentino. È la bellezza che oggi viene riproposta come cura, dopo settanta giorni di chiusura e isolamento, a chi si era asserragliato in casa dall’inizio di una incerta primavera, e ne emerge che fa caldo come fosse piena estate.

Trenta gradi segna il termometro alla fine della mattinata, e scendere verso valle diventa fatica spossante per via della passata imposta inazione. Stamane, giù a San Pietro, un Papa Francesco solo quasi quanto lo era stato all’inizio, quando chiese a Dio di liberarci dal Male in un sagrato vuoto e malinconico, ha ricordato Karol Wojtyla. Santo e artista. “Gli artisti ci fanno capire cosa è la bellezza. E senza il bello, il Vangelo non si può capire”, ha detto Bergoglio anche in una delle sue omelie da Santa Marta, che ora non ci saranno più.

Finisce lo streaming, riapre la Basilica, e con il dischiudersi dei sacri portoni alla luce si torna pian piano alla normalità. Ma la normalità vuol dire innanzitutto curare l’anima, e per curarla ci vuole il bello. Ecco allora, per l’appunto, che se il Tempietto del Bramante, cioè il bello allo stato puro, ancora si nega, è San Pietro che assolve alla missione taumaturgica. Gente in fila non molta: pesa la giornata calda e infrasettimanale, ma anche una certa ritrosia ad ammettere che le cose non marciano male. I virologi continuano a tenere alto l’allerta. Controlli come previsto, nè trascurati nè soffocanti: in fondo gli stessi per entrare nei palazzi del potere laico romano.

Dentro invece vince la frescura e quel silenzio che sa di chiostro medievale, perché di sottofondo ha voci indistinte che pare ripetano incessantemente la parola “rabarbaro”, come si faceva nei doppiaggi di una volta. Suore e guardie svizzere in mascherina, turisti pochi o punti. Si aspetta con una certa ansia la riapertura dei Musei Vaticani, ma non ci si fanno illusioni: prima che riprenda il flusso vero, sarà già Natale.

Venticinque anni fa Josè Saramago immaginava, forse non a caso, la cecità come la nuova peste, e ne descriveva l’epidemia. Solo in una chiesa si ha la visione (meglio: l’unica persona non colpita dal male conduce gli altri in una chiesa, e qui sbalordisce): “Un uomo inchiodato alla croce con una benda bianca a tappargli gli occhi, e, li’ accanto, una donna col cuore trafitto da sette spade e gli occhi tappati anch’essi con una benda bianca, e non c’erano soltanto quest’uomo e questa donna in simili condizioni, tutte le immagini della chiesa avevano gli occhi bendati, le sculture con una striscia di tessuto bianco legata intorno alla testa, i dipinti con una spessa pennellata di pittura bianca”.

San Pietro è il contrario esatto: nessun bianco lattice a coprire la vista in una benda luminosa, ma colori semmai nascosti nella penombra, da scoprire senza far caso all’altrui scalpiccio. Le preghiere nelle cappelle hanno il sapore di una riappropriazione del territorio, e del tempo.

Soprattutto domina l’arte, chiamata oggi a portare, nelle parole di Bergoglio, “bellezza; una bellezza che sempre eleva il cuore, ci porta alla bontà, ci porta a Dio”. Lo disse, una volta, Francesco in un’udienza: “L”arte, nella storia, è stata seconda solo alla vita nel testimoniare il Signore. È stata, ed è, una via maestra che permette di accedere alla fede più di tante parole e idee, perché con la fede condivide il medesimo sentiero, quello della bellezza”.

Nella bellezza, poi, pone “Dio, l’uomo e il creato in un’unica sinfonia; perché congiunge il passato, il presente e l’avvenire; perché attira nello stesso luogo e coinvolge nel medesimo sguardo genti diverse e popoli distanti”.

Poteva allora esserci momento migliore di questo, per lasciare che riprendesse a scorrere il bello nelle vene di chi ha vissuto, al contrario, l’incertezza della paura? Giorni passati a contar le ore, nell’attesa di un segnale liberatorio.

Quando poi è arrivato, non è stato definitivo: alla vita si torna un po’ per volta, altrimenti lo shock sarebbe troppo forte. Per questo il barbone ha gioco facile, nel chiedere l’elemosina su via della Conciliazione.

Tra Borgo e il Tevere alcuni bar hanno riaperto, in un cauto movimento di mascherine non sempre indossate secondo i canoni dell’ortodossia e atteggiamenti decisamente protestanti, nei confronti delle prescrizioni.

Ma questa è vita che riprende, se non si oltrepassano certi limiti la tolleranza è, se non proprio assicurata, almeno prevedibile. Il barbone, si diceva, ha gioco facile: finora chiedeva con discrezione, e gli si lasciava la moneta su una panchina o ai piedi di un obelisco. Ora chiede quasi con giubilo, perché sa che qualcosa in comune, oggi, c’è con tutti.

Un sospiro di sollievo generale, anche se trattenuto, misto ad un senso di bellezza che inizia a pervadere l’ambiente. E lui sa che è il momento di chiedere, e quindi ottiene. Anche la questua infatti è un’arte. E magari ha persino la sua bellezza.

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