Il nuovo mondo ai tempi del coronavirus potrebbe essere (finalmente, aggiungerebbero molti) il mondo delle donne. Come durante i due conflitti mondiali, quando i mariti partivano per la trincea e le mogli li sostituivano in fabbrica e nei campi, è un fatto che la guerra globale al virus si tinga di rosa. Se non altro sul piano epidemiologico: l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità conferma che le donne si ammalano meno, visto che il 57,8% dei contagiati in Italia sono maschi.
Ormoni? Maggiore resistenza fisica innata, per via della predisposizione al parto? Gli scienziati si interrogano, e non è escluso che tra le cause ci siano anche motivi sociali: sono 9 milioni circa le donne italiane che non lavorano, e rimangono a casa ad accudire i figli. Un dato di per sé preoccupante, che indica come la via per la piena emancipazione femminile sia ancora lunga e tortuosa, ma che potrebbe aver contribuito a farle ammalare di meno, proprio perché non costrette a uscire per lavorare come i mariti, anche in tempo di ‘lockdown‘. Ma che non basta a spiegare il fenomeno, visto che stando ai dati le donne contagiate comunque si aggravano (e muoiono) meno.
Qualsiasi siano le cause, comunque, è su questa evidente differenza uomo-donna che ha insistito pochi giorni fa la virologa Ilaria Capua, che dagli Usa ha lanciato una proposta che sa di provocazione, ma forse nemmeno troppo: “Il virus è più aggressivo negli uomini. Si potrebbe pensare di far tornare prima al lavoro le donne”, ha sottolineato a DiMartedì. “E’ un dato molto interessante che va confermato in tutte le sfaccettature. Il numero di donne positive che sviluppano malattie gravi e muoiono è inferiore. La scienza ci sta dicendo qualcosa che può essere utilizzata nel periodo della post-quarantena. Per prima cosa dobbiamo pensare alle persone più fragili che vanno protette. Poi si può pensare di usare le donne come semafori rossi e di farle tornare a lavoro prima”, ha detto la scienziata.
Non è, o non è ancora, un ipotesi sul tavolo, ma il tema c’è e ricorda tanto, appunto, quello che succedeva in passato, quando l’emergenza si è trasformata, per le donne, in una svolta storica. Dalla Rivoluzione Francese, che elenca molte grandi donne per la prima volta dopo secoli alla ribalta, da Madame de Stael a Charlotte Corday, alla Grande Guerra, che fu un terremoto: l’assenza di molti uomini chiamati a combattere contro l’esercito austro-ungarico scardinò l’equilibrio tradizionale, dove i membri maschili della famiglia avevano il compito di lavorare fuori dalle mura domestiche mentre le donne eseguivano le proprie mansioni all’interno, accudendo i figli e sbrigando le faccende di tutti i giorni. Quando i posti di molti contadini e operai furono lasciati vuoti vennero coperti da chi era restato e non sarebbe mai stato chiamato al fronte: le donne.
Il loro ruolo, per la prima volta, passò da “angelo del focolare domestico” a membro attivo dell’economia e della società collettiva. Un processo traumatico, perché le donne erano obbligate a compiere gli stessi lavori dei colleghi maschi, anche quelli piu’ pesanti, nei campi o in fabbrica. E considerato da larghi strati della società poco meno che un’eresia, comunque un fatto temporaneo da superare al più presto. Così non fu: il segno rimase indelebile, malgrado la “restaurazione” fascista che relegò la donna al duplice ruolo di moglie e madre (e di portatrice di corna, sottolineava Mussolini, che se ne intendeva). E durante il secondo conflitto mondiale divenne ancora più evidente: le donne ancora nei campi e in fabbrica, a costruire munizioni, vestiti, a confezionare scorte di cibo per i soldati.
Ma anche a partecipare attivamente allo sforzo bellico, come il celebre caso della “carrista” Elisabetta Windsor, destinata a diventare di lì a poco una delle donne più famose della storia, e che da regina d’Inghilterra può assistere dopo oltre 70 anni anche a quest’altra crisi epocale. Fino alla Resistenza, quando le donne, non solo staffette ma membri a pieno titolo dei gruppi partigiani, combatterono e morirono come gli uomini. Tanto che alla fine della guerra la decisione (fin troppo tardiva) di allargare anche a loro il diritto di voto fu più una presa d’atto che una scelta ideologica.
E oggi? Potrebbe forse essere una nuova svolta, complice la minore suscettibilità al contagio: persino in Cina, dove sul piano dell’emancipazione sono decisamente indietro rispetto all’Europa (il Paese è al 95 posto nel mondo per il coinvolgimento politico femminile) le donne sono tornate alla ribalta, non solo per le ormai iconiche infermiere di Wuhan, ma anche per il ruolo svolto per esempio dalla vicepremier Sun Chunlan, peraltro l’unica donna nel Politburo del Partito Comunista, che è stata mesi in trincea a Wuhan senza risparmiare strali ai funzionari locali, ammonendoli che “non devono esserci disertori, o verranno condannati per sempre al destino della vergogna storica”.
Mentre in Italia sono diventate celebri le ricercatrici dello Spallanzani (dove peraltro anche il direttore generale è una donna, Marta Branca), che sono riuscite a isolare il virus dal sangue prelevato dai due cinesi ricoverati nell’ospedale romano. Insomma, probabilmente l’idea di Ilaria Capua non si concretizzerà, ma non è solo provocazione e la storia lo insegna: comunque andrà, da questa crisi tutto cambierà.