L’ultima volta di Limonov a Roma fu un flop. O, forse, un grandissimo successo. Perché, come che sia andata, per giorni sulla stampa italiana e in quelli che a qualcuno piace chiamare i “salotti buoni” della Capitale si parlò di quella bizzarra comparsata del controverso intellettuale post-sovietico.
Davvero una comparsata in realtà, perché più che per qualche selfie e un paio di battute Limonov non si concesse. La location, di per sé, era già tutta un programma: un raffinato appartamento al Cremlino Bianco in cui una giornalista organizza affollate e apprezzate presentazioni di libri, dopo esservisi trasferita da una soffitta con terrazza nella centralissima via Giulia.
Per comprendere l’ironia bisogna spiegare che il Cremlino Bianco si chiama così per molteplici ragioni: uno dei più eleganti appartamenti di questo maestoso complesso sulle sponde del Tevere, nel cuore del popolare quartiere di Testaccio, era un tempo una delle sedi più importanti del partito comunista italiano. Ora in quelle stanze vive il giudice Rosario Priore (quello dell’inchiesta sulla strage di Ustica, per intenderci) che nella parete del salone ha voluto lasciare un enorme falce e martello di epoca postbellica. Al Cremlino Bianco, oltre a Priore, vivono (o hanno vissuto) esponenti di spicco dell’intellighenzia di sinistra (o fu tale) come Giuliano Ferrara ed Enrico Letta.
Ed è quindi più che ironico che proprio al Cremlino Bianco fosse andato a parlare uno degli intellettuali più invisi al Cremlino (quello vero). Anche se ‘parlare’ è, per l’appunto, una parola grossa, Perché nel’affollato salone dell’appartamento dove sedeva davanti a un albero di Natale, le finestre spalancate per dare un po’ d’aria in un inverno insolitamente caldo, Limonov quasi non spiccicò verbo.
Si era mostrato irrequieto fin dal primo momento. Irrequieto per la lunga intervista cui era stato costretto e che lo aveva – a detta del suo editore italiano – stremato; irrequieto per la chiassosa folla che in parte non riconosceva in lui la controversa figura politica, il discusso rivoluzionario, l’ambiguo guerrigliero. Irrequieto per il continuo italico ciarlare che, tra una fetta di salame e un bicchiere di Chianti, non sembrava volersi acquietare per cedere la parola all’uomo venuto dalla steppa dopo un larghissimo giro di conflitti ed esili.
Fatto sta che proprio mentre la sala si azzittava e tutti si disponevano a dargli ascolto, Limonov borbottò qualcosa, si alzò, uscì dalla stanza, trovò a fatica il proprio cappotto tra quelli delle decine di ospiti e andò via – esile, minuto, sofferente – seguito dalla imbarazzata padrona di casa, dal costernato editore e dagli sguardi sorpresi degli astanti.
Sorpresi, per la verità, solo per poco, perché dopo che lo stupore si fu trasformato in fastidio e gli sguardi di curiosità e ammirazione si furono romanamente mutati in qualche ‘ma vaff…”, si tornò placidamente a parlare di libri e, pure, di lui. Di quel Limonov del, se non fosse stato un altro autore dall’ego ipertrofico come Emanuele Carrére a dargli fama, oggi (a torto) si ricorderebbero in pochi, chiusi nostalgici tinelli costretti all’isolamento.
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