Arriva dalla Corte d’appello di Torino la conferma che l’uso scorretto e prolungato del telefono cellulare può provocare l’insorgenza di tumori cerebrali. Lo comunicano gli avvocati Stefano Bertone e Renato Ambrosio dello studio Ambrosio e Commodo, che hanno seguito il caso di Roberto Romeo, l’uomo che aveva trascinato l’Inail davanti al tribunale di Ivrea, deducendo la natura professionale del neurinoma acustico destro di cui e’ affetto.
La sentenza, nel 2017, aveva dato esito favorevole al lavoratore. Ora la conferma dalla Corte d’appello di Torino: “Il neurinoma acustico è stato causato da uso lavorativo del cellulare”. “Il caso Romeo contro Inail”, spiegano i legali, “è il primo nella storia giudiziaria mondiale ad aver avuto sue sentenze di merito consecutive favorevoli per il lavoratore”.
In 20 anni ancora nessuna prova di rischio
Ma nonostante la sentenza, la scienza a oggi non ha certezze, se non che le prove, dopo ormai oltre 20 anni di utilizzo massiccio del cellulare da parte di miliardi di persone in tutto il mondo, non ci sono. Soprattutto considerando un dato inoppugnabile: a fronte del successo travolgente della telefonia mobile, i tassi di incidenza dei tumori cerebrali sono rimasti pressoché invariati. È quanto ribadito solo pochi mesi fa dall’Istituto superiore di Sanita’, che ha condotto una metanalisi degli studi pubblicati dal 1999 al 2017, secondo la quale “in base alle evidenze epidemiologiche attuali, l’uso del cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree piu’ esposte alle radiofrequenza durante le chiamate vocali”.
La metanalisi dei numerosi studi pubblicati in quasi 20 anni, infatti, “non rileva incrementi dei rischi di tumori maligni (glioma) o benigni (meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (10 anni) dei telefoni mobili”.
I nuovi studi in particolare sottolineano che “gli impianti per telecomunicazione sono aumentati nel tempo ma l’intensità dei segnali trasmessi è diminuita con il passaggio dai sistemi analogici a quelli digitali”. Soprattutto “gli impianti WiFi hanno basse potenze e cicli di lavoro intermittenti cosicché, nelle case e nelle scuole in cui sono presenti, danno luogo a livelli di radiofrequenza (RF) molto inferiori ai limiti ambientali vigenti. La maggior parte della dose quotidiana di energia a RF deriva dall’uso del cellulare.
L’efficienza della rete condiziona l’esposizione degli utenti perché la potenza di emissione del telefonino durante l’uso è tanto minore quanto migliore è la copertura fornita dalla stazione radio base più vicina. Inoltre, la potenza media per chiamata di un cellulare connesso ad una rete 3G o 4G (UMTS o LTE) è 100-500 volte inferiore a quella di un dispositivo collegato ad una rete 2G (GSM 900-1800 MHz). Ulteriori drastiche riduzioni dell’esposizione si ottengono con l’uso di auricolari o viva-voce”. Per quanto riguarda le reti 5G, “le emittenti aumenteranno, ma avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti attuali e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all’irradiazione indirizzabile verso l’utente (beam-forming) comporterà un’ulteriore riduzione dei livelli medi di campo nelle aree circostanti”.
Tornando ai potenziali rischi, si rileva come i dati relativi al glioma e al neuroma acustico “sono eterogenei. Alcuni studi caso-controllo riportano notevoli incrementi di rischio anche per modeste durate e intensità cumulative d’uso. Queste osservazioni, tuttavia, non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido e notevole aumento della prevalenza di esposizione”. Mentre i dati attuali “non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia”.
Gli studi in corso (Cosmos, MobiKids, GERoNiMo), sottolinea l’Iss, contribuiranno a chiarire le residue incertezze. Quanto all’ipotesi di un’associazione tra RF emesse da antenne radiotelevisive e incidenza di leucemia infantile, suggerita da alcune analisi di correlazione geografica, “non appare confermata dagli studi epidemiologici con dati individuali e stime di esposizione basate su modelli geospaziali di propagazione”.
Per quanto riguarda gli studi sperimentali su sistemi biologici isolati, “la maggioranza degli studi disponibili non evidenzia danni al DNA a seguito dell’esposizione a RF. In particolare, nella maggior parte degli studi non si osservano associazioni tra esposizione a RF e frequenza di aberrazioni cromosomiche o micronuclei (indicatori di danno permanente al DNA), mentre alcune indagini hanno riscontrato alterazioni della migrazione del DNA, anomalie del fuso mitotico e della formazione di foci (tutti indicatori di danno genetico transitorio e riparabile)”.
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