Maria Laura Antonelli / AGF
Alberto Caviglia
Da regista, con la sua opera prima “Pecore in erba”, rivelazione cinematografica presentata al Festival di Venezia, Alberto Caviglia aveva già adottato, nel 2015, un approccio satirico all’antisemitismo. Adesso per la sua prima volta da romanziere con “Olocaustico” che edito da Giuntina esordisce l’8 dicembre alla rassegna romana “Più libri più liberi” il 35enne romano che con Agi si definisce “un ebreo laico” alza l’asticella della dissacrazione, affrontando con un taglio satirico, annunciato dal titolo deflagrante, temi cruciali come quello della Shoah e del suo relativo negazionismo.
Ma si può scherzare sulla Shoah senza temere di offendere qualcuno? “L’ironia è la mia cifra e per ora le critiche non sono arrivate. Sono convinto che la gente ne abbia abbastanza della retorica della Shoah, la mia sensazione è che il pubblico sia arrivato a una sorta di saturazione rispetto al Giorno della Memoria e alla liturgia del 27 gennaio. Questo non significa però che ci si debba arrendere, anzi: rassegnarsi all’insofferenza, aprire la strada al negazionismo e al revisionismo sarebbe un grande errore, e credo che questo mio romanzo possa aiutare a spostare il punto di vista verso una narrazione diversa, verso un nuovo modo di raccontare la Shoah, più fruibile soprattutto per i più giovani. Mi piacerebbe portarlo nelle scuole proprio nel giorno della Memoria, è un libro che con il tema delle fake news applicato alla memoria della Shoah parla la lingua giovanile del web”.
Come è nata l’idea di chiamare il suo romanzo “Olocaustico”, titolo che non passerà di certo inosservato?
“E’ nata durante una serata a casa di amici, a me piacciono i giochi di parole, temevo che l’editore me lo rifiutasse, ma ha capito l’intento”.
Il protagonista David Piperno, un giovane ebreo romano che va a vivere a Tel Aviv con il sogno di poter realizzare un film di fantascienza, sembra somigliarle parecchio…
“Per il mio primo romanzo era quasi scontato che attingessi al mio vissuto. E’ ovviamente frutto di fantasia, invece, il fatto che esclusivamente per tirare avanti in attesa del suo film, David realizzi videointerviste ai sopravvissuti della Shoah per il museo della Memoria Yad Vashem, a Gerusalemme. Quando l’ultimo superstite muore, per tenersi stretto lavoro e introiti commette un errore enorme: si inventa un sopravvissuto, la sua fake news viene scoperta con relativo scandalo cavalcato dai negazionisti, poi superato con un happy end a favore della verità storica a cui contribuisce, a sorpresa, un’altra fake news legata all’opera di fantascienza di Piperno”.
Sembra una storia da cinema, lei è stato anche assistente di Ferzan Ozpetek, “Olocaustico” diventerà il suo secondo film dopo “Pecore in erba?”
“In effetti è nato per il grande schermo. Ho scritto la storia pensando al cinema, e l’ho quindi trasformata in un romanzo per rendere poi il passaggio più semplice”.
Lo dedica a “nonna Miriam”, perché proprio a lei? “Perché è la persona che più mi ha trasmesso l’ironia ebraica e perché da bambina fu costretta a rifugiarsi per due anni con la sua sorellina in Svizzera per sfuggire alle leggi razziali e ai rastrellamenti nazisti. Io mi ritengo fortunato perchè tutti e quattro i miei nonni in un modo o nell’altro riuscirono a salvarsi, ma so che questo non è scontato. E tra i motivi che mi hanno portato a scrivere ‘Olocaustico’ c’è proprio il desiderio di rendere la storia dei miei nonni e di tutte le persone più o meno fortunate di loro, più vicina alle nuove generazioni. E poi c’è stata un’altra, decisiva molla..”
Quale?
“Quella legata all’inevitabile scomparsa dei sopravvissuti, dei testimoni viventi della Shoah. L’angoscia del conto alla rovescia mi ha dato la spinta, cosa accadrà quando i sopravvissuti ci lasceranno? Oggi la memoria della Shoah si sta sgretolando, le testimonianze storiche e fotografiche, anche per effetto delle fake news, non contano più nulla per i negazionisti e i revisionisti e l’unico antidoto è rappresentato dai testimoni in carne e ossa. Servono nuove forme di narrazione della Memoria”.
Quanto ritiene preoccupanti i recenti casi di cronaca filonazista e negazionista, da “miss Hitler” al docente universitario di Siena Emanuele Castrucci che difende il dittatore nazista su Twitter?
“Quasi ogni giorno viene fuori un fatto di cronaca di stampo antisemita. Sono segnali molto allarmanti ma trovo ancora più preoccupante e grave il fatto che ci sia stia quasi abituando a questo genere di episodi, senza rendersi conto di cosa ribolle nel sottobosco in cui si annidano”. Il suo protagonista si inventa anche due amici immaginari: Itzhak Rabin, il premier israeliano ucciso nel ’95 da un fanatico religioso ebreo, e lo scrittore Philip Roth, quali sono i suoi riferimenti letterari ebraici? “Sicuramente Roth, insieme a Shalom Auslander e, in Italia, ad Alessandro Piperno”.
In una conversazione con il protagonista, esasperato dalle ingerenze telefoniche di sua madre Sara, Roth gli ricorda: “Un ebreo con i genitori vivi è un bambino di 15 anni e rimarrà un bambino di 15 anni fino a quando moriranno”. E’ così anche per lei?
“Mia madre è il prototipo della jewish mum ed essendo anche una mamma italiana è una jewish mum al quadrato: un cortocircuito devastante”.
Nelle sue prime due opere, sia in quella cinematografica sia in quella letteraria ha scelto di occuparsi di antisemitismo e di Shoàh, come si spiega questo pensiero dominante?
“Continua a sorprendere anche me, perché anni fa non avrei mai pensato di concentrarmi su temi ebraici. Evidentemente, vivendo sia nel mondo ebraico, sia fuori da esso ho una doppia prospettiva che mi sollecita”.
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